Astounding Science Fiction, maggio

 

Quando uscì per la prima volta sul numero di «Astounding» del maggio 1941, Jay Score passò un po' in secondo piano perché quel numero conteneva due importanti storie di Heinlein, Universe e Solution Unsatisfactory, pubblicato con lo pseudonimo di Anson McDonald. In aggiunta, c'era anche Liar! di uno dei vostri curatori e, come ciliegina finale, Heinlein forniva anche una guida e uno schema della «Storia Futura» che doveva ancora sviluppare. Mi spiace proprio, Isaac, ma riviste come quelle non le fanno proprio più.

La collaborazione di Russell è un'ottima storia ed è la prima di una serie di quattro che alla fine fu raccolta col titolo Men, Martians and Machines, nel 1955.

 

(No, non le fanno più, Marty. E sono proprio io il primo a convenirne. Oggi la gente parla di calcio e dice che gli Yankees nel 1927 erano la più grande squadra di tutti i tempi, e io sono d'accordo. La mia impressione è che anche gli «Astounding» del 1939-1941 fossero i migliori di tutti i tempi. Riguardo a ritroso, sono sorpreso che John Campbell abbia pubblicato ben due storie di robot nel numero di maggio, ma Jay Score era davvero ottimo, tanto dal mio punto di vista tipicamente egocentrico la giudico la miglior storia di robot che non ho mai scritto dai tempi di Helen O'Loy di Lester del Rey. - I.A.)

 

Ci sono delle ottime ragioni per tutto ciò che fanno. Per i non iniziati alcuni dei loro trucchetti e dei loro regolamenti sembrano piuttosto strampalati... ma viaggiare nel cosmo non è esattamente come andare a spasso nello stagno di famiglia con una tinozza vuota. Nossignore!

Per esempio, a pensarci bene, l'idea di impiegare degli equipaggi misti non è per niente peregrina. Nei lunghi viaggi esterni verso Marte, verso gli asteroidi o anche oltre, impiegano i terrestri bianchi per occuparsi dei motori, in quanto sono loro che hanno perfezionato le moderne unità a propulsione, sanno quasi tutto su di esse e se le possono coccolare come nessun altro. I medici di bordo invece sono terrestri negri perché per una qualche ragione che nessuno sa spiegare, nessun negro soffre per gli sbalzi di gravità o per la nausea spaziale. Tutte le squadre di riparazioni esterne, invece, sono composte di marziani che utilizzano pochissima aria, sono eccellenti lavoratori dei metalli e sono pressoché immuni dalle bruciature dovute ai raggi cosmici.

In quanto ai viaggi all'interno del sistema solare, verso Venere, gli equipaggi vengono formati in maniera pressoché analoga, solo che il pilota di emergenza è un affarone grande e grosso come Jay Score. C'è una buona ragione per tutto questo: è stato lui a fornirla. È assai improbabile che lo possa dimenticare. Quello è un tipo che rimane in mente per l'eternità. Che uomo!

La prima volta che lui comparve, il destino mi aveva piazzato in cima alla passerella d'ingresso. La nostra astronave era la Upskadaska City, un cargo nuovo di trinca con un numero limitato di posti passeggeri, registrato nello spazioporto venusiano da cui aveva preso il nome. Inutile dire che tra i più induriti spaziali la nave era conosciuta col nome di Upsydaisy.

Ci trovavamo nel Bacino Razzi del Colorado, a nord di Denver, con a bordo un notevole carico, soprattutto macchinari per orologeria, apparecchiature agricole, attrezzature aeronautiche e attrezzi per Upskadaska, oltre a una cassa di aghi di radio per l'Istituto di Ricerche sul Cancro di Venere. I passeggeri erano otto, tutti agricolturisti che emigravano con l'intenzione di lavorare i campi a quarantotto milioni di chilometri più vicini al Sole. Avevamo fatto uscire la rampa e aspettavamo di sentire la sirena, prevista fra una quarantina di minuti, quando arrivò Jay Score.

Jay Score era alto due metri, pesava almeno centoventi chili, ma riusciva a spostare la sua mole con la grazia di un ballerino classico. Sì, guardare un bestione del genere muoversi a quel modo era veramente uno spettacolo da non perdere. Jay Score risalì la passerella di duralluminio con l'indifferenza di un gitante che sale a bordo di un autobus per Jackson's Creek. Dalla sua mano destra, stretta a pugno che assomigliava a un prosciuttone, penzolava una valigia di pelle non conciata che se non gli conteneva un letto e un guardaroba completo, poco ci mancava.

Una volta giunto in cima, si arrestò un attimo per osservare le spade incrociate che avevo sul berretto e disse: «Buongiorno, sergente. Io sono il nuovo pilota d'emergenza. Devo presentarmi al capitano McNulty».

Io sapevo che dovevamo imbarcare un altro pilota, adesso che Jew Durkin era stato promosso all'olezzante Prometeus di Marte. Così questo era il suo successore, un terrestre fatto e finito, ma né bianco né nero. Il suo volto assolutamente privo di espressione, ma dall'aria capace, appariva ricoperto di cuoio vecchio, ben stagionato. I suoi occhi sembravano emettere dei fuochi fosforescenti. Tutt'attorno a lui sembrava emanare un'aura che lo classificava come un individuo eccezionale, quale non ne avevo mai visti prima d'allora.

«Benvenuto, Coccolino», lo salutai e per guardarlo in viso dovetti sforzare il collo all'indietro, ma non gli offrii la mano perché non ci tenevo a farmela stritolare. «Apri la sacca e lasciala nella camera di sterilizzazione. Il capitano lo trovi a prua».

«Grazie», mi rispose senza il minimo barlume di sorriso e attraverso la porta stagna, trascinandosi dietro il valigione.

«Si decolla fra quaranta minuti», lo avvertii.

 

Non lo rividi più finché non fummo a trecentoventi chilometri di distanza, con la terra ridotta a una lunetta verdastra in fondo alla nostra coda di vapori. Poi lo udii nel corridoio mentre chiedeva a qualcuno dove poteva trovare il sergente di bordo. Lo indirizzarono alla mia porta.

«Sergente», mi disse, passandomi la richiesta ufficiale. «Sono venuto a ritirare la dotazione». Poi si appoggiò alla barriera di separazione e l'intera struttura mugolò di dolore mentre il tubo in cima si piegava nel mezzo.

«Ehi!» gridai.

«Oh, scusi!» E si ritrasse. Decisamente la barriera stava molto meglio se lui il suo peso se lo teneva tutto per sé.

Stampai il suo modulo di requisizione e andai nell'armeria dove tirai fuori una pistola a aghi-raggi e una scatola di capsule per la stessa. Il paio di sci per fango venusiano che gli scovai erano di almeno undici misure più piccoli e un metro troppo corti per lui, ma avrebbe dovuto accontentarsi. Gli diedi una lattina di olio leggero multiuso, un barattolo di grafite, una batteria Lepanto per il suo radiofono a microonde e alla fine un pacchetto di pellicole di erba noce con la scritta: «Omaggio della Società Erbe Aromatiche del Pianeta dell'Amore».

Mi restituì quella piccante leccornia e disse: «Queste può tenerle, mi fanno girare la testa». Il resto della roba se l'infilò nella bisaccia al fianco senza neanche muovere un sopracciglio. Era un pezzo che non vedevo nessuno con una tale faccia da giocatore di poker.

Ciò nonostante, l'aria con cui osservò le tute spaziali mi parve stranamente inquieta. Ce ne erano trenta, biforcate, per i terrestri ed erano tutte appese alla parete come pelli morte. C'erano anche sei caschi testa-spalle per marziani, dal momento che questi non avevano bisogno di più di tre libbre di pressione. Per lui naturalmente non c'era una tuta che andasse bene. Neanche se fosse stata in gioco la mia vita sarei riuscito ad adattargliene una. Sarebbe stato come cercare di mettere un elefante in una lattina di birra.

Be', se la cavò facilmente, se capite cosa voglio dire. Il modo dinoccolato con cui muoveva quella montagna di carne mi fece pensare che se si fosse scatenato in un attacco di follia sarebbe stato meglio trovarsi in qualche altro posto. Non che pensassi che questo fosse possibile; in effetti era un tipo amabile quanto una sfinge, ma ero affascinato dalla sua aria di calma e sicurezza e dai suoi movimenti che erano rapidi, silenziosi e avevano un non so che di sprannaturale. Forse questi ultimi erano dovuti alla sua abitudine di portare tre centimetri di gommapiuma sotto quegli zatteroni che aveva per piedi.

Continuai a seguire con occhio interessato Jay Score per tutto il tempo che la Upsydaisy impiegò a solcare il vuoto. Sì, ero più che curioso sul suo conto, perché nonostante abbia conosciuto un sacco di tipi durante la mia vita, uno come lui era del tutto nuovo. Jay Score rimase poco comunicativo, ma cordiale e tranquillo, questo sì. Il suo lavoro filava via con efficienza ed era soddisfacente sotto ogni aspetto. McNulty stesso lo prese in grande simpatia, sebbene non fosse mai stato il tipo da accogliere un nuovo venuto con baci e abbracci.

Dopo tre giorni di viaggio, Jay fece un gran colpo sui marziani. Come tutti sanno, quegli strani esseri tentacolati dagli occhioni enormi e semirespiranti sono da più di due secoli appiccicati con l'attaccatutto al Campionato di Scacchi del Sistema Solare. Nessuno, fuori da Marte, riuscirà mai a strapparglielo. Quella è gente che va pazza per quel gioco e più di una volta mi è capitato di vedere un gruppo di marziani cambiare tutti i colori dello spettro per l'eccitazione quando alla fine qualcuno ha mosso un pedone dopo trenta minuti di profonda meditazione.

Una volta Jay passò il suo intero periodo di riposo di otto ore sotto una pressione di tre libbre nella camera stagna di tribordo e dai telefoni della camera stagna uscivano lunghi silenzi punteggiati da esclamazioni e trilli come se lui e i marziani stessero trasformando quel luogo in un manicomio. Alla fine scoprimmo che la nostra squadra esterna tentacolata era del tutto esausta e saltò fuori che Jay aveva acconsentito a giocare contro Kli Yang, riportando uno stallo. Kli, era arrivato sesto all'ultimo torneo solare ed era stato battuto solo dieci volte... sempre da un confratello marziano, naturalmente.

Da quel momento la banda del pianeta rosso gli mise un dito addosso, o almeno un tentacolo. Ogni volta che lui aveva un periodo di riposo lo bloccavano e lo trascinavano nella camera stagna. Undici giorni dopo la partenza, Jay giocò contro tutti e sei i marziani contemporaneamente, perse due partite, ne pareggiò tre e ne vinse una. A quel punto lo considerarono un mago degli scacchi... per essere un semplice terrestre. E conoscendo bene quanto i marziani fossero in gamba in questo gioco, lo pensai anch'io. E così pure McNulty il quale arrivò addirittura al punto di riportare i risultati sul libro di bordo.

Ricordate tutti il chiasso che fecero quelli dell'audiostampa del 2270 con la «Mossa Miracolosa di McNulty»? Be', praticamente è la leggenda degli spazi. Più tardi, dopo il nostro ritorno a casa, McNulty declinò l'immeritato onore e l'attribuì a chi se lo meritava, ma l'audiostampa non aveva tutti i torti, come al solito. Lui era il capitano, no? E il suo nome suonava bene nei titoli, no? Sembra infatti che ci sia una setta di audiogiornalisti che per ottenere la salvezza della propria anima debbano impiegare a tutti i costi dei titoli con tanto di allitterazioni.

Ciò che fece precipitare tutto e mi fece diventare bianchi i capelli fu un frammento meteoritico di nickel-ferro alla deriva nel cosmo, la cui orbita si trovava sul piano planetario e che si avvicinò ad angolo retto lungo la nostra rotta verso il Sole.

Questo ci dette un bel daffare. Io non avrei mai creduto che un affare così piccolo potesse provocare una botta del genere; ancora oggi sento lo spaventoso sibilo dell'aria che cercava di uscire verso la libertà dal foro tutto slabbrato lasciato dal meteorite.

Perdemmo un sacco di aria prima che le autoporte sigillassero la sezione danneggiata. La pressione era già scesa a nove libbre quando i compensatori la bloccarono e ricominciarono lentamente a ricostituirla. La sua caduta non inquietò minimamente i marziani per i quali nove libbre di pressione erano un'enormità.

Nella sezione sigillata ci rimase un tecnico. Un altro riuscì a sfuggire per un soffio alla chiusura delle porte stagne. Ma il primo pensammo che ci avesse rimesso la pelle e che alla fine ne sarebbe uscito galleggiando come tanti altri spaziali che sono giunti alla fine del loro turno.

Il tipo che se l'era cavata, adesso se ne stava appoggiato a una paratia stagna, col viso bianco come un cencio per averla scampata a quel modo. Poi arrivò Jay Score, massiccio come un carro armato. La sua mascella era al lavoro, i suoi occhi erano come fanali, ma la sua voce era fredda e accomodante. E quando arrivò disse: «Uscite tutti. Sigillate questa parete. Voglio cercare di fare un colpo. Quando poi picchio, aprite alla svelta e fatemi uscire».

Detto questo ci spinse fuori dalla stanza, che noi sigillammo chiudendo l'autoporta. Non potevamo vedere cosa stava facendo il gigante, ma i rivelatori ci dissero che aveva aperto la porta della sezione danneggiata. Un paio di secondi dopo la luce si spense, avvertendoci che la porta era stata rinchiusa. Poi udimmo bussare forte, con urgenza. Aprimmo. E Jay si tuffò nell'apertura col corpo privo di sensi del tecnico tra le sue forti braccia, leggero come se quel corpo non pesasse più di un gattino. Lo slancio con cui passò dalla porta sembrò per un attimo portarlo all'estremità opposta dell'astronave.

Nel frattempo scoprimmo che ci trovavamo nei guai fino al collo. I razzi non funzionavano più. I tubi di Venturi erano a posto, e le camere di combustione indenni. Gli iniettori, se azionati a mano, funzionavano a meraviglia. Non avevamo perso neanche un grammo del nostro prezioso combustibile e l'involucro era intatto, fatta eccezione per quel foro del meteorite. Ciò che ci mise nei guai, invece, fu che i comandi combinati di alimentazione e accensione erano completamente rovinati. Questi infatti si erano trovati nel punto in cui era passato il meteorite ed ora erano solo un ammasso di ferraglia.

Questa era una faccenda più che seria. Tutti sapevano benissimo che ciò significava la morte, anche se nessuno lo diceva apertamente e sono sicuro che perfino McNulty condividesse quella nera prospettiva, anche se il suo rapporto ufficiale lo minimizzava definendo la situazione «un imbarazzante contrattempo». Be', vedete, McNulty, era fatto così. C'è da meravigliarsi che non abbia anche definito le nostre impressioni, registrando che eravamo alquanto abbacchiati.

Comunque in quel momento arrivò la squadra marziana, visto che per la prima volta in sei viaggi c'era veramente bisogno della loro opera. La pressione era lentamente tornata a quattordici libbre e i marziani dovevano affrontarla, bardati della loro combinazione di casco e coprispalle.

Kli Yang fiutò con aria disgustata e, sventolando un tentacolo, cinguettò: «Ci potrei nuotare dentro!» Assunse un aspetto più trattabile quando gli regolammo l'apparecchiatura sulle sue abituali tre libbre. Questa infatti è la reazione tipica dei marziani quando vogliono fare del sarcasmo. Ogni volta che l'atmosfera è troppo spessa per i loro gusti, fanno dei movimenti sinuosi, tipo nuotatore e affermano perentori «Ci potrei nuotare dentro!»

Se vogliamo però dare a Cesare quel che è di Cesare, dobbiamo riconoscere che erano in gamba. Un marziano può abbarbicarsi a un lastrone di liscissimo ghiaccio e lavorare senza interruzione per dodici ore con una razione di ossigeno che non soddisferebbe un terrestre per più di novanta minuti. Li osservai mentre passavano dalla porta stagna, gli occhi sformati dal casco, i tentacoli stretti attorno ai fili dell'energia elettrica, mentre sigillavano le piastre coi saldatori a semiarco. Delle luci azzurre crearono delle piccole aurore all'esterno dei portelli, mentre cominciavano a tagliare, sagomare e richiudere quel brutto buco tutto frastagliato.

Per tutto quel tempo noi continuammo a sfrecciare verso il sole. Se non fosse stato per questo maledetto incidente, ci saremmo immessi in una curva verso l'orbita di Venere entro quattro ore. Poi ci saremmo lasciati afferrare dalla sua forza di gravità mentre noi deceleravamo per atterrare sani e salvi.

Purtroppo quando quel miserabile atollo spaziale scelse proprio noi per il suo tête-a-tête eravamo ancora diretti verso la più grande e luminosa fornace di tutto il sistema solare e così continuammo in quella direzione, mentre la nostra velocità originaria veniva continuamente incrementata a causa dell'attrazione della nostra sfolgorante meta.

Io desideravo sì di venire cremato... ma a suo tempo, non allora!

Nella sala di navigazione di prua, Jay Score rimase in costante contatto col capitano McNulty e i due operatori di astro-computer. All'esterno, i marziani continuarono ad aggirarsi come spettri che emettevano crepitanti lampi di spettrale luce azzurrina. Naturalmente non è che gli ingegneri aspettassero che quelli finissero. Quattro di essi, con indosso le tute spaziali, entrarono nella sezione danneggiata e cominciarono a rimettere ordine in quel caos.

Io provavo un senso di invidia nei confronti di tutta quella gente così impegnata e come me c'erano molti altri. Si provava una certa consolazione infatti a fare qualcosa, anche in una situazione chiaramente disperata, mentre ci si sente veramente a terra quando si è costretti a farsi girare i pollici mentre gli altri sono attivi.

Due marziani tornarono indietro, afferrarono altre lastre per saldatura e tornarono dentro. Uno di loro pensò anche che sarebbe stata una brillante idea quella di prendersi anche la scacchiera tascabile, ma non glielo permisi. Ci sono tempi e luoghi adatti per quelle cose e lo scacco al re sulla pelle di una bagnarola sforacchiata non lo è di certo. Poi andai da Sam Hignett, il nostro medico negro.

Sam era riuscito a strappare il nostro tecnico dall'abbraccio di Monna Morte. Ci era riuscito ricorrendo all'ossigeno, all'adrenalina e al massaggio cardiaco. Solo le sue lunghe e abili dita avrebbero potuto riuscirci, un'impresa di alta chirurgia che era già riuscita altre volte, ma non troppo spesso.

Mi sembrò subito che Sam non sapesse cos'era successo di preciso e che neanche gliene importasse. Era sempre così quando aveva un paziente tra le mani. Rapidamente chiusa con abilità l'incisione sul petto con dei punti d'argento, spennellò la pelle pinzata con della plastica iodizzata e ne provocò l'indurimento istantaneo mediante freddo con uno spruzzo d'etere.

«Sam», gli dissi. «Sei una meraviglia».

«È stato Jay a darmene la possibilità», mi rispose. «L'ha portato qui in tempo».

«Perché dare la colpa tutta a lui?» ci scherzai su in modo non troppo felice.

«Sergente», fu la risposta molto seria. «Io sono il medico di bordo e faccio del mio meglio. Se però Jay non mi avesse portato quest'uomo quando me l'ha portato, non avrei assolutamente potuto salvarlo».

«Va bene, va bene» convenni. «Faccia come vuole».

Un bravuomo, Sam. Ma anche lui era come tutti i medici... sì, quella roba che ha a che fare con l'etica professionale. Lo lasciai col suo paziente che era tornato a respirare lentamente.

 

Mentre tornavo mi incontrai con McNulty sulla passerella. Stava controllando i serbatoi di carburante. Lo faceva personalmente e questo voleva dire qualcosa. Aveva un'aria preoccupata e questo significava maledettamente molto. Questo significava che era inutile che mi prendessi il disturbo di scrivere il mio testamento, perché tanto nessun essere vivente l'avrebbe mai potuto leggere.

La sua sagoma imponente sparì nella sala di navigazione di prua e lo udii dire: «Jay, penso che...» prima che la porta si rinchiudesse tagliandomi fuori dal resto del discorso.

Era chiaro che aveva una gran fede in Jay Score. Be', quell'individuo sembrava certamente piuttosto efficiente. Il capitano e il nuovo pilota di emergenza continuarono a comportarsi come vecchi amiconi perfino mentre si dirigevano al grande appuntamento in friggitoria.

Uno degli emigranti agricolturisti uscì dalla sua cabina e mi afferrò al volo prima che potessi riguadagnare l'armeria. Mentre mi studiava con occhi spalancati mi disse: «Sergente, dal mio portello si vede una mezzaluna».

L'uomo continuò a osservarmi con tanto d'occhi, mentre io lo guardavo a mia volta nella stessa maniera. Se Venere si mostrava a mezzaluna, questo voleva dire ormai che stavo attraversando la sua orbita. E lo sapeva anche lui... lo capivo benissimo dalla sua espressione.

«Allora», insistette con mal nascosto nervosismo. «Che ritardo ci provocherà questo intoppo?»

«Non lo so proprio». Mi grattai la testa cercando di assumere un'espressione stupida e nello stesso tempo fiduciosa. «Il capitano McNulty farà del suo meglio. Si può fidare di lui... papà sa come si fa».

«Lei, ehm, non pensa che siamo in pericolo?»

«Oh, per niente».

«Lei è un bugiardo», mi disse.

«Mi secca doverlo ammettere», ribattei.

Questo lo smontò. Così se ne tornò in cabina, insoddisfatto e apprensivo. Fra poco avrebbe visto Venere nella fase di tre quarti e l'avrebbe detto agli altri. E allora ci sarebbe stata tanta carne al fuoco.

La nostra carne nel fuoco del Sole.

 

Le ultime tracce di speranza erano ormai quasi scomparse quando un terrificante rombo e un violento tremito di tutto lo scafo mi disse che i razzi, da lungo tempo ormai spenti, erano tornati in azione. Il rumore non durò più di alcuni secondi, poi i tecnici interruppero il funzionamento, soddisfatti di vedere che le riparazioni erano state efficienti.

Il rumore fece accorrere al galoppo il nostro agricolturista. Ormai era a conoscenza del peggio e con lui gli altri. Era stato impossibile nascondere loro la verità per tre giorni da che avevano visto Venere a mezzaluna. Ora il pianeta era molto dietro di noi e noi stavamo intersecando l'orbita di Mercurio, ma i passeggeri continuavano ad avvinghiarsi alla disperata speranza che qualcuno compisse un inaudito miracolo.

L'agricolturista piombò di corsa nell'armeria e gridò: «I razzi sono tornati a funzionare. Che significa?»

«Niente», gli risposi, poiché non vedevo l'utilità di dargli delle false speranze.

«Ma non possiamo invertire la rotta e tornare indietro?» chiese, asciugandosi il sudore che gli colava dalle guance. Forse il sudore era in parte dovuto alla paura, ma soprattutto era dovuto a una assai sgradita ragione, cioè che le condizioni all'interno dell'astronave erano divenute ormai tutt'altro che artiche.

«Signore», gli dissi, sentendomi la camicia appiccicata alla schiena. «Siamo soggetti a un'attrazione quale nessun altro gruppo di stramaledetti spaziali ha mai sperimentato prima d'ora e ci stiamo muovendo a una velocità così alta che non possiamo fare altro che stare a guardare».

«Il mio ranch», grugnì quello amareggiato. «Mi sono stati assegnati cinquemila acri del miglior territorio venusiano per la coltura del tabacco, per non parlare poi di alcuni altipiani da pascolo per il bestiame».

«Mi spiace, ma credo proprio che sarà molto fortunato se avrà modo di vederli».

Crrrump! fecero di nuovo i motori. La spinta mi piegò all'indietro e fece piegare lui in due come se avesse un mal di pancia coi fiocchi. Su a prua, McNulty o Jay Score, o chi per loro, stava dilettandosi ad azionare i razzi. A me, sinceramente, sembrava una cosa priva di senso.

«E perché lo fanno?» riprese il piagnone, ritornando in posizione perpendicolare.

«I ragazzi. Saranno i ragazzi», risposi io.

Sbuffando per il disgusto se ne tornò in cabina. Un tipico emigrante terrestre, grosso, pieno di salute e coriaceo, lento a crollare e temporaneamente troppo scocciato per cominciare a preoccuparsi sul serio.

Mezz'ora più tardi risuonò per tutti gli altoparlanti della astronave una chiamata generale. Era un segnale di terra che non si usava mai nello spazio e significava che l'intero equipaggio e tutti gli altri occupanti erano chiamati a raccolta nella cabina centrale. Pensate un po', della gente che veniva richiamata dai posti di lavoro in pieno volo!

Dietro quella chiamata doveva esserci qualcosa di unico nella storia della navigazione spaziale, probabilmente un appello a prepararsi alla «fine inevitabile» da parte di McNulty.

Poiché mi aspettavo che fosse appunto il comandante a presiedere agli ultimi riti, non mi meravigliai di vederlo in piedi su un piccolo podio con una leggera smorfia sul viso paffuto, che divenne un'ombra di sorriso quando entrarono i marziani e uno di loro si mosse come uno squalo.

In piedi accanto a McNulty e come al solito assolutamente privo di espressione, Jay Score guardò il marziano che fingeva di nuotare come se fosse una lastra di vetro trasparente, poi i suoi occhi in cui bruciava una strana luce si spostarono da un'altra parte come se quello spettacolo fosse oltremodo noioso. Sì, anche quella faccenda del nuotare stava diventando stantia come scherzo.

«Uomini e vedras», cominciò McNulty. Quest'ultimo vocabolo marziano voleva dire «adulti» e, implicitamente, era un altro argomento di sarcasmo presso i marziani. «Non c'è bisogno che mi dilunghi sulla stranezza della nostra posizione». Stranezza, diceva lui. Decisamente aveva un modo del tutto particolare di scegliere le parole il capitano. «In questo momento noi ci troviamo più vicini al Sole di quanto non lo sia mai stato qualsiasi altro vascello nell'intera storia della navigazione cosmica».

«Navitazione cosmica», fece eco Kli Yang con un umorismo privo di tatto.

«Il tuo umorismo ci servirà più tardi per tirarci su il morale», osservò Jay Score con una voce così piatta che Kli Yang si quietò subito.

«In questo momento ci stiamo muovendo verso la nostra stella», continuò McNully, mentre riappariva la sua smorfia «a una velocità superiore a quella di qualsiasi altra astronave in precedenza. Per dirla fuori dai denti, non c'è più di una probabilità su diecimila di uscire vivi da questa situazione». Rivolse a Kli Yang uno sguardo di sfida, ma ormai il tentacolo marziano se ne stava buono buono. «Comunque, una possibilità c'è... e la tenteremo».

Lo guardammo tutti quanti a bocca spalancata, chiedendoci cosa diavolo volesse dire. Sapevamo benissimo tutti che la nostra terrificante velocità rendeva impossibile una svolta a U per tornare indietro senza andare a sbattere contro il Sole. E neanche era possibile cercare di viaggiare nella direzione opposta con tutto quel po' po' di attrazione. Insomma non c'era altro da fare che andare avanti, sempre avanti, fino alla grande fiammata finale che avrebbe sparso nel cosmo le nostre molecole smembrate.

«Ciò che intendiamo fare è provare una orbita cometaria», continuò McNulty. «Secondo me, Jay e gli astro-computatori dovrebbe esserci una lieve possibilità di riuscita».

Questo era semplice e chiaro. Si trattava di un trucco puramente teorico, frequentemente discusso da matematici e astronavigatori, ma mai tentato nella realtà. L'idea consiste nell'accumulare tutta la velocità ottenibile e nello stesso tempo inserirsi in un'orbita allungata ed ellittica, simile a quella di una cometa. In teoria, l'astronave avrebbe dovuto a questo modo rasentare da vicino il bordo del Sole a una velocità così straordinariamente alta da venire poi proiettata all'esterno, come nel caso di un pendolo, dal lato opposto dell'orbita da cui era venuta. Un bel trucco, sicuro... ma avrebbe funzionato?

«I calcoli mostrano che ci troviamo in una posizione abbastanza favorevole per tentare la manovra con una minuscola probabilità di successo», disse McNulty. «Abbiamo inoltre energia e combustibile sufficienti a raggiungere la necessaria velocità con l'aiuto dell'attrazione solare, per inserirci nell'orbita con l'angolatura idonea e mantenerla per tutto il tempo che sarà necessario. L'unico punto su cui abbiamo dei seri dubbi, sta nelle nostre possibilità di sopravvivenza quando ci troveremo nel punto più vicino al sole». Con la mano si asciugò il sudore dalla fronte, sottolineando così inconsciamente la situazione che avrebbe dovuto affrontare». Non starò a giocare con le parole, gente. Il nostro sarà un assaggio dell'inferno!»

«Ce la faremo, capitano», gridò qualcuno e nella cabina risuonò un leggero mormorio di incoraggiamento.

 

Kli Yang si alzò in piedi e agitò simultaneamente le quattro braccia disarticolate per attirare l'attenzione, poi cinguettò: «È un'idea eccellente. Io, Kli Yang l'appoggio anche a nome dei miei compatrioti vedras. Ci rintaneremo nel frigorifero e sopporteremo la puzza dei terrestri fintanto che il Sole si sarà allontanato».

Ignorando la battuta sull'odore degli umani, McNulty annuì e disse: «Tutti si dovranno raccogliere nella sala frigorifero e cercheranno di sopportare il calore come meglio potranno».

«Esattamente», disse Kli. «Proprio così», aggiunse, senza curarsi minimamente della inutilità della precisazione. Poi, agitando l'estremità di un tentacolo verso McNulty continuò: «C'è un guaio però, ci sarà impossibile controllare l'astronave mentre ce ne staremo rintanati in ghiacciaia come tante coppette di gelato. È necessario perciò avere un pilota a prua. Basta una persona sola per mantenerla in rotta... fino a quando andrà arrosto, naturalmente. Perciò qualcuno dovrà essere disposto alla frittura».

Col tentacolo fece un altro movimento aggraziato, completamente illuso di affascinare i suoi ascoltatori e di averli in pugno. «E dal momento che è innegabile che noi marziani siamo molto meno suscettibili al calore più scatenato, io suggerisco...»

«Balle!» scattò McNulty. Ma la sua sgarberia non ingannò nessuno. I marziani erano dei seccatori, ma erano anche tizi in gamba.

«Va bene», il cinguettio di Kli divenne un acuto grido di protesta. «Chi altri ha il diritto di farsi friggere come una patatina?»

«Io», disse Jay Score. Fu strano il modo in cui lo disse. Come se la sua candidatura fosse così ovvia che solo un cieco non potesse accorgersene.

Ma aveva ragione! Perché Jay era proprio il tipo ideale per quel lavoro. Se c'era qualcuno in grado di sopportare l'inferno che si sarebbe riversato dai portelli d'osservazione anteriori, quello era proprio Jay Score. Era grande, grosso, un duro, plasmato appunto per compiti del genere. Aveva fegato, ben più di noi, e soprattutto era un pilota d'emergenza pienamente abilitato. E non c'erano dubbi che questa fosse una situazione d'emergenza, anzi la peggiore di tutte.

Ma fu assai strana la sensazione che provai nei suoi confronti. Me lo potevo già immaginare ritto là a prua, tutto solo, nessun altro attorno, la nostra vita appesa ai suoi limiti di resistenza, mentre la furia del Sole stendeva le sue dita incandescenti...

«Tu!» esclamò Kli Yang, interrompendo il flusso dei miei pensieri. I suoi occhioni si gonfiarono ancora di più per l'ira mentre osservava l'imponente, laconica figura sul podio. «Proprio tu! Io sono pronto a darti un matto in quattro mosse, come ben ti rendi conto con tuo grande spavento ed ecco che tu trovi subito il trucco di metterti al sicuro».

«Sei mosse», lo contraddisse Jay con aria svagata. «Non puoi riuscirci con meno di sei mosse».

«Quattro!» Kli Yank quasi si mise a gridare. «E proprio a questo punto tu...»

Tutto quel battibecco era troppo per McNulty che sembrava ormai sull'orlo del collasso. Il suo viso, scarlatto, si volse verso Kli che continuava a gesticolare.

«Al diavolo i vostri dannati scacchi!» ruggì. «Ritornate tutti ai vostri posti. Preparatevi per la massima spinta. Suonerò l'adunata generale immediatamente nel momento in cui sarà necessario mettersi al coperto e voi tutti vi rifugerete nella stanza frigorifera». Dopo aver detto questo si guardò attorno. Il colore paonazzo stava gradatamente smorzandosi mentre la pressione sanguigna gli scendeva.

«Tutti cioè, eccetto Jay».

Sembrava di essere tornati ai vecchi tempi quando i razzi andavano a tutta birra. Ora rombavano uniformemente e con continuità. All'interno della nave, l'atmosfera divenne sempre più calda finché l'umidità prese a sgocciolarci senza interruzione giù per la schiena e le pareti si ricoprirono di vapore acqueo. Come si stesse nella sala di navigazione di prua non lo sapevo e non mi curai di accertarlo. I marziani non si sentivano ancora a disagio; una volta tanto la loro composizione balorda era da invidiare.

Non tenni conto del tempo, ma ebbi due turni di lavoro intervallati da un periodo di sonno prima che la sirena desse l'allarme generale. Ma ormai le cose si erano messe male. Ormai non sudavo più: mi stavo lentamente liquefacendo.

Sam, naturalmente, sopportava il caldo più facilmente di tutti gli altri terrestri e aveva resistito abbastanza a lungo da portare completamente fuori pericolo il suo paziente, almeno per quanto riguardava la situazione precedente. Quel tecnico era stato fortunato, sempre che sia una fortuna venir risparmiati per il rogo. Lo mettemmo immediatamente nella sala frigorifero sotto la sorveglianza di Sam.

Noi altri li seguimmo quando suonò l'allarme. Il nostro santuario, in realtà, era qualcosa di più di un refrigeratore; era infatti la parte più solida e fredda di tutta l'astronave, un compartimento pesantemente corazzato con tripla schermatura dove erano custoditi gli armadietti degli strumenti, due infermerie e un grande salone per i passeggeri che soffrivano di nausea spaziale. Ci stavamo dentro tutti, comodamente.

Tutti eccettuati i marziani. Per contenerli, li conteneva, ma nient'affatto comodamente. Quelli non si trovano mai a loro agio con quattordici libbre di pressione, che non solo considerano densa ma anche puzzolente... come respirare della melassa impregnata di puzza di caprone.

Sotto i nostri occhi, Kli Yang tirò fuori un flacone di profumo hooloo e lo passò al suo semiparente Kli Morg. Quest'ultimo lo prese, ci fissò disgustato, poi fiutò nel flacone con grande ostentazione, il che era decisamente insultante. Ma nessuno disse niente.

Erano presenti tutti, eccetto McNulty e Jay Score. Il capitano comparve due ore dopo. La situazione doveva essere davvero terribile là davanti, perché appariva distrutto. Il suo viso tirato era lucido di sudore e coperto di goccioline, le sue guance una volta grassocce erano afflosciate e coperte di vesciche. La sua uniforme, di solito elegante e ben stirata, gli pendeva addosso come uno straccio. Era sufficiente una sola occhiata per capire che si era preso una bella rosolata e non avrebbe sopportato di più.

Con andatura incerta, attraversò la sala e entrò nel cubicolo del pronto soccorso dove si spogliò con movimenti lenti e sofferenti. Sam lo strofinò con una gelatina a base di tannino e sentimmo il capitano grugnire raucamente per il tormento mentre Sam si dava da fare con energia.

Ormai il caldo ci assaliva con violenza; pervadeva le pareti, il pavimento, l'aria e ogni muscolo del mio corpo era trafitto da una moltitudine di sensazioni roventi. Parecchi tecnici si tolsero stivaletti e giacchetta. Poco dopo i passeggeri li imitarono, togliendosi la maggior parte degli abiti. Il mio agricolturista se ne stava seduto con aria abbacchiata con indosso la sola biancheria di seta tropicale e rifletteva tristemente sul suo destino.

McNulty sbucò dal suo cubicolo, si lasciò cadere su una cuccetta e disse: «Se fra quattro ore saremo ancora vivi, vuol dire che avremo passato il peggio».

In quel momento i razzi vennero a mancare. Capimmo immediatamente cos'era successo. Si era vuotato un serbatoio e un relè non aveva funzionato. In condizioni normali ci sarebbe stato un meccanico pronto ad azionare manualmente i condotti, ma con quel caldo e la confusione, qualcuno aveva commesso un errore.

Il guaio era appena successo che già Kli Yang era sfrecciato fuori dalla porta. Fino a quel momento aveva ciondolato nei pressi dell'uscita e mentre noi stavamo ancora cercando di raccapezzarci, lui era già sparito. Venti secondi dopo i razzi ripresero il loro monotono ronzio.

La campanella di un intercom mi risuonò all'orecchio. Accesi il microfono e con voce secca gracchiai: «Che c'è?» e udii la voce di Jay proveniente da prua.

«Chi è stato?»

«Kli Yang», gli risposi. «È ancora fuori».

«Probabilmente è andato a prendere il loro armamentario», tirò a indovinare Jay. «Digli che lo ringrazio».

«Come si sta dalle tue parti?» chiesi.

«Al caldo. La vista non funziona molto bene». Ci fu un attimo di silenzio, poi: «Penso di poter resistere però. Adesso legatevi e state pronti per la prossima volta che suonerò la campanella».

«Perché?» gridai con voce roca.

«Cercherò di far ruotare l'astronave. Per... distribuire meglio il... calore».

Un leggero stridìo mi disse che aveva chiuso il contatto. Dissi agli altri di legarsi con le cinture di sicurezza. Per i marziani non era necessario, però. Loro infatti erano dotati di ventose grandi quanto un piattino da caffè che li avrebbero potuti tenere incollati anche a una cometa scaracollante.

Kli tornò e dimostrò che Jay aveva avuto ragione, infatti trascinava con sé le apparecchiature respiratorie della squadra. Il carico era il massimo che poteva trasportare, ora che la temperatura aveva raggiunto il punto a cui perfino lui cominciava a soffrire.

I marziani indossarono le loro bardature, sigillarono le cuciture e ridussero la pressione a tre libbre. Questo li rese parecchio più felici. Ricordando come noi terrestri ci servivamo delle tute per tenere l'aria all'interno, sembrò alquanto strano osservare quei tipi che usavano le loro invece per tenerla fuori.

Avevano appena finito di mettersi comodi e avevano disposto una scacchiera per giocare quando la campanella risuonò di nuovo. Ci attaccammo a tutti gli appigli. I marziani fecero presa sul pavimento con le loro ventose.

Lentamente, ma con costanza, la Upsydaisy cominciò a ruotare sul suo asse longitudinale. La scacchiera e i suoi pezzi cercarono di mantenersi in posizione, ma non ci riuscirono e rotolarono in tutte le direzioni, sul pavimento, su per il muro e lungo il soffitto. L'attrazione solare ormai li manteneva aderenti al lato rivolto verso l'astro.

Vidi il viso teso e sconvolto dal caldo di Kli Yang seguire tetro un alfiere nero mentre questi svolazzava attorno e immagino che dentro il suo vaso per pesci rossi stesse ricorrendo a qualche possente esempio di invettiva marziana.

«Tre ore e mezza», ansimò McNulty.

 

Il calcolo di quattro ore poteva voler dire solo due ore di avvicinamento al punto critico e due ore di allontanamento da esso. Perciò il momento in cui sarebbero mancate solo due ore sarebbe stato quello in cui ci saremmo trovati più vicini alla fornace cosmica, il momento di maggiore pericolo.

Di quel momento critico io non mi accorsi, perché persi i sensi venti minuti prima che ci arrivassi. Inutile dilungarsi sull'orrore di quei momenti. Credo di essere semplicemente ammattito un poco per volta. Ero un maiale al forno che veniva arrostito vivo. Questo è l'unico momento in cui ho mai pensato al Sole come a un gran bastardo luccicante che dovrebbe essere spento per l'eternità. Un istante dopo non fui più in grado di connettere.

Ripresi i sensi e mi mossi dolorosamente dove ero legato con le cinghie novanta minuti dopo aver superato il punto critico. La mia mente annebbiata faceva fatica a rendersi conto che ormai mancava solo mezz'ora al punto di salvezza teorica.

Ciò che era successo nel frattempo fu lasciato alla mia immaginazione e in quel momento non mi curai certo di raffigurarmelo. Il Sole che bruciava con una ferocia che era milioni di volte maggiore di quella dell'occhio di una tigre e centomila volte più affamato, desideroso solo di appropriarsi delle nostre carcasse. La fiammeggiante corona che stendeva le sue lingue di fiamma verso questo carico di entità ormai più di là che di qua, imprigionate in una bottiglia di metallo.

E là, nella parte frontale dell'astronave, dietro i suoi portelli di osservazione al quarzo, totalmente inadeguati, Jay Score che affrontava da solo quell'inferno sempre più vicino e lo fissava e lo fissava e lo fissava...

Rialzatomi in piedi, barcollai incerto e caddi come un sacco di patate. L'astronave ora non ruotava più e proseguiva il suo volo al solito modo. Il motivo per cui caddi fu semplice debolezza. Mi sentivo da cani.

I marziani si erano già ripresi. Avevo sempre saputo che sarebbero stati loro i primi. Uno di essi mi tirò su di peso e mi tenne fermo mentre io cercavo di recuperare almeno una parte del mio solito equilibrio. Notai che un altro si era disteso addosso a McNulty e a tre dei passeggeri. Sì, li aveva protetti in parte dal calore e adesso loro quattro erano i primi a riprendersi.

Raggiunsi l'intercom, lo accesi, ma non riuscii ad avere alcuna risposta dalla prua. Per tre minuti rimasi lì impalato con la mente ancora confusa, poi riprovai. Niente da fare. Jay non voleva o non poteva rispondere.

Io però ero un tipo ostinato e feci parecchi altri tentativi senza ottenere migliore risultato. Il risultato mi costò un altro attimo di vertigini e così cascai a terra un'altra volta. Il calore era ancora spaventoso. Mi sentivo più disidratato di una mummia tirata fuori dalla sabbia del deserto dopo un milione di anni.

Kli Yang aprì la porta e strisciò fuori con un movimento faticoso e sofferente, sulle spalle aveva ben saldo il casco per l'aria. Cinque minuti dopo tornò e parlò attraverso il diaframma del casco.

«Non sono riuscito ad avvicinarmi alla sala di navigazione di prua. Sulla passerella centrale le autoporte si sono chiuse, l'atmosfera è sigillata all'interno e dentro deve essere come una fornace». Si guardò attorno, incontrò il mio sguardo e rispose alla domanda che era nei miei occhi. «Non c'è aria a prua».

Se non c'era aria, ciò significava che i portelli di osservazione erano finiti kaputt. Nient'altro avrebbe potuto svuotare la sala di navigazione. Be', noi avevamo delle parti di ricambio e una volta al sicuro avremmo potuto riparare con facilità quei danni. Intanto però stavamo fuggendo a tutta birra, forse su una rotta corretta e forse no, con una sala di navigazione vuota e priva d'aria e un sistema intercom che offriva solo un cimiteriale silenzio.

Seduti qua e là, ci riprendemmo lentamente, l'ultimo a uscire dal coma fu il tecnico infortunato. Fu Sam a riportarlo di nuovo in vita e fu circa in quel momento che McNulty si deterse il sudore e mostrò un'improvvisa eccitazione.

«Quattro ore, gente», esclamò soddisfatto. «Ce l'abbiamo fatta!»

Lanciammo un evviva. Per Giove, con quella notizia l'atmosfera surriscaldata sembrò calare di colpo di dieci gradi. Strano come, allentandosi la tensione, tornino le forze; nel giro di un minuto avevamo sconfitto la debolezza ed eravamo pronti ad agire. Ma dovevano passare ancora quattro ore prima che quattro tecnici in tuta spaziale riuscissero a penetrare nell'inferno di prua fino alla sala di navigazione.

Lo portarono nel cubicolo di Sam, una lunga e pesante figura col viso annerito dalle bruciature.

Stupidamente gli girai attorno dicendogli: «Jay, Jay, come va?»

Lui doveva avermi sentito perché mosse le dita della mano destra ed emise un rumore sordo e stridulo. Due dei tecnici andarono nella sua cabina e riportarono indietro la sua valigiona di pelle grezza. Poi chiusero la porta e rimasero con Sam, lasciando me e i marziani a friggerci d'impazienza fuori della porta. Kli Yang andava su e giù per il corridoio come se non sapesse cosa fare coi suoi tentacoli.

Sam uscì dopo più di un'ora e noi l'aggredimmo.

«Come va Jay?»

«È cieco come una statua». Scosse la testa lanosa. «E anche la sua voce è sparita. È stata davvero dura».

«Ecco perché non ha risposto all'intercom». Lo guardai fisso negli occhi. «Non, non può fare nulla per lui, Sam?»

«Vorrei proprio poterlo fare». Il suo volto color seppia mostrò cosa provava. «Sa bene quanto ci terrei a rimetterlo in sesto. Ma non posso». Fece un gesto di impotenza. «È assolutamente al di là delle mie modeste capacità. Nessuno al di sotto di Johannsen può aiutarlo. Magari, quando ritorneremo sulla terra...» La sua voce si smorzò e tornò dentro.

Kli Yang disse abbattuto: «Mi sento tanto triste».

 

Una scena che non dimenticherò mai fino al giorno della morte fu la sera che passammo come ospiti dell'Astro Club di New York. Quel club era, come è oggi, il circolo più esclusivo che sia mai esistito. Per poterne fare parte occorre avere compiuto in situazioni di straordinaria emergenza un'impresa di astronavigazione che rasenti il miracolo. C'erano nove membri a quel tempo e anche ora sono solo dodici.

Il presidente era Mace Waldrom, il famoso pilota che salvò nel 2263 quella nave di linea marziana. Molto elegante, se ne stava in piedi a capotavola con Jay Score seduto al fianco. All'estremità opposta del tavolo c'era McNulty, con dipinto sul muso grassoccio un ampio sogghigno soddisfatto. Accanto al capitano c'era il vecchio Knud Johannsen dai capelli bianchi, il genio che aveva disegnato la serie J, uno scienziato ben noto a tutti gli spaziali.

Lungo i lati del tavolo, chiaramente conscio della propria importanza, sedeva l'intero equipaggio della Upsydaisy, compresi i marziani, più tre dei nostri passeggeri che avevano rimandato il viaggio per l'occasione. C'erano anche un paio di audiogiornalisti muniti di telecamere e microfoni.

«Signori e vedras», disse Mace Waldron, «questo è un avvenimento senza precedenti nella storia dell'umanità, un avvenimento che mai era stato pensato possibile dai membri di questo club. Appunto per questo mi sento doppiamente onorato di avere il privilegio di proporre che Jay Score, Pilota d'Emergenza, venga accettato quale membro di pieno diritto dell'Astro Club».

«Appoggiamo la proposta!» gridarono simultaneamente tre dei membri.

«Grazie, signori». Il presidente inarcò un sopracciglio con aria interrogativa. Otto mani si alzarono all'unisono. «Approvato», disse. «All'unanimità». Poi, lanciata un'occhiata al taciturno e impassibile Jay Score si lanciò in una lunga eulogia che andò avanti parecchio tempo, piena di lodi e di superlativi, mentre Jay se ne stava sempre seduto con aria svagata.

Verso la fine vidi il sorriso soddisfatto di McNulty farsi sempre più evidente. Accanto a lui, il vecchio Knud osservava Jay con la tenerezza di un padre che indulgeva oltre il lecito. Anche i membri dell'equipaggio osservarono con la massima attenzione il viso annerito di colui che costituiva l'argomento del discorso e anche le telecamere erano fisse su di lui.

Riportai la mia attenzione verso il punto dove guardavano tutti e dove la vittima sedeva, con gli occhi che erano tornati brillanti e lucenti, ma col viso completamente immobile, nonostante il discorso, la pubblicità e l'irraggiamento di orgoglio paterno da parte di Johannsen.

Ma dopo dieci minuti vidi J.20 che cominciava a dimenarsi, chiaramente imbarazzato.

E non mi venite a dire poi che i robot non hanno sentimenti!

 

 

Universo

Universe

di Robert A. Heinlein

Astounding Science Fiction, maggio

 

Universe, un'altra storia contenuta nella Hall of Fame degli Scrittori di fantascienza americani è giustamente famosa sia come racconto che come prototipo (anche se non è propriamente il primo) di quelle storie imperniate su un mondo autosufficiente e limitato, in questo caso una enorme astronave i cui abitanti avevano dimenticato chi erano, cosa facevano e perfino la natura della loro esistenza.

Questa è veramente una delle storie più importanti e che hanno avuto maggiori influenze nel campo della fantascienza.

 

(Non c'è nessuno come Bob Heinlein che sia capace di arrivare sempre primo. L'idea del mondo autosufficiente ora non è più solo un elemento caratteristico della fantascienza, ma un argomento riconosciuto anche dalla scienza ufficiale. Nelle mie opere di saggistica ho spesso scritto che le «astronavi» rappresentano il futuro più serio dell'umanità e vi confesso senza vergogna che l'idea mi è venuta proprio da Universe. Non posso dire anche che Gerard O'Neill abbia ricavato l'idea dei suoi «insediamenti spaziali» sempre da Universe, se l'avesse fatto ne sarei compiaciuto, ma non sorpreso. Ah, quell'aureo anno del 1941! - I.A.)

 

«Attenzione, c'è un mutante laggiù!»

Al grido d'allarme, Hugh Hoyland si abbassò, raggomitolandosi su se stesso. Un proiettile metallico a forma d'uovo colpì la paratia a un centimetro dalla sua testa, rischiando di fracassargli il cranio. Hoyland si era piegato con uno scatto tale che i suoi piedi si erano sollevati dalle lastre del pavimento, e prima di toccare di nuovo il suolo spinse energicamente i piedi contro la paratia alle sue spalle, lanciandosi in avanti. Si proiettò in posizione orizzontale lungo il passaggio, con il pugnale in mano.

Girandosi in aria, frenò il proprio slancio puntando i piedi contro la paratia metallica, proprio nel punto da cui il mutante lo aveva attaccato, e ricadde lentamente in piedi. Il restante tratto del passaggio era deserto. I suoi due compagni nel frattempo lo avevano raggiunto, scivolando con strani movimenti lungo il pavimento.

«È fuggito?» chiese Alan Mahoney.

«Sì» rispose Hoyland. «Ho fatto in tempo a vederlo mentre si infilava in quel boccaporto. Una femmina, direi. Mi è sembrato avesse quattro gambe.»

«Due gambe o quattro, ormai non l'acchiappiamo più» osservò il terzo uomo.

«E chi Huff lo voleva prendere?» protestò Mahoney. «Io no di certo!»

«Ma io sì!» ribatté Hoyland. «Per Jordan, se avesse mirato un centimetro più in basso, adesso sarei già pronto per il Convertitore.»

«Ma è possibile che nessuno di voi due riesca a dire tre parole senza metterci una bestemmia?» li rimproverò il terzo uomo. «E se il Capitano vi sentisse?»

Nel nominare il Capitano si toccò la fronte con un gesto di reverenza.

«Oh, per l'amor di Jordan» sbuffò Hoyland «non essere così rigido, Mort Tyler. Non sei ancora uno scienziato, in fin dei conti. Credo di essere osservante almeno quanto te... ma non è un peccato mortale dare sfogo ogni tanto ai propri sentimenti. Anche gli scienziati lo fanno. Li ho sentiti con le mie orecchie.»

Tyler aprì la bocca per ribattere, ma ci ripensò e lasciò perdere.

Mahoney prese Hoyland per il braccio.

«Dammi retta, Hugh» lo pregò «andiamocene via di qua. Non ci siamo mai spinti così in alto. Non mi sento tranquillo... Ho bisogno di tornare dove posso sentire un po' di peso sui piedi.»

Hoyland guardò con rimpianto il boccaporto da cui il suo assalitore era scomparso, continuando a stringere l'impugnatura del coltello. Si rivolse quindi a Mahoney.

«D'accordo, ragazzo» disse. «Abbiamo molta strada da fare per tornare indietro.»

Si voltò e iniziò a strisciare verso il boccaporto da cui avevano raggiunto il livello dove si trovavano ora; gli altri due lo seguirono. Senza servirsi della scaletta che avevano utilizzato per salire, Hoyland si lasciò cadere nell'apertura, scendendo con un lento ondeggiamento fino al ponte posto cinque metri più sotto, con i due compagni a breve distanza. Un altro boccaporto, poco lontano dal precedente, li fece accedere al ponte di un livello ancora inferiore.

Giù, giù, giù, scesero sempre più giù, attraverso decine e decine di ponti, tutti silenziosi, poco illuminati, misteriosi. A ogni nuovo livello, i loro corpi cadevano più rapidi e l'impatto con il pavimento era un po' più duro.

Mahoney alla fine protestò.

«Non credi che sarebbe meglio usare le scale ora, Hugh? Quest'ultimo salto mi ha quasi fracassato le gambe.»

«Come vuoi. Ma impiegheremo più tempo. Quanto manca? Qualcuno ha contato i livelli?»

«Ce ne sono ancora settanta per arrivare alla zona verde» rispose Tyler.

«Come fai a saperlo?» chiese Mahoney, sospettoso.

«Li ho contati salendo, stupido. E, scendendo, ho diminuito di uno a ogni ponte.»

«Non ci credo. Soltanto uno scienziato può fare questi calcoli. Solo perché stai imparando a leggere e a scrivere, credi già di sapere tutto?»

Hoyland intervenne prima che la discussione degenerasse in una lite.

«Piantala, Alan. Può darsi che lui li sappia fare. È molto portato per queste cose. E, comunque, i ponti da scendere non dovrebbero essere più di settanta: comincio a sentirmi abbastanza pesante.»

«Forse preferisce fare i conti con la lama del mio coltello!»

«Piantatela, ve l'ho già detto! Lo sapete che fuori dal villaggio i duelli sono proibiti. È il Regolamento.»

Ripresero a scendere in silenzio, percorrendo rapidi le scale, fino a quando il peso, che cresceva a ogni nuovo livello, li costrinse a un'andatura più lenta.

Alla fine raggiunsero un livello ben illuminato e alto più del doppio rispetto ai ponti superiori. L'aria era umida e calda, la vegetazione impediva la visuale.

«Ci siamo, finalmente» disse Hugh. «Ma non ho mai visto questa fattoria. Dobbiamo essere scesi lungo un percorso diverso da quello che abbiamo seguito per salire.»

«C'è un contadino» disse Tyler. Si avvicinò i mignoli alle labbra e fischiò, poi gridò: «Ehi, compagno di viaggio! Dove ci troviamo?»

Il contadino li squadrò attentamente prima di indicare, con pochi monosillabi pronunciati di malavoglia, dove si trovava il passaggio principale che li avrebbe riportati al loro villaggio.

Percorsero a passo spedito un'ampia galleria, lunga circa tre chilometri, abbastanza trafficata: viaggiatori, facchini, qualche sporadico carrettino, un distinto scienziato che procedeva rapido su una portantina trasportata da quattro attendenti muscolosi, preceduto dal suo aiutante, incaricato di sgombrare la strada dai comuni passanti. Alla fine, arrivarono alla zona comune del loro villaggio, alta tre ponti e larga forse dieci volte tanto. I tre si separarono e ognuno andò per la sua strada. Hugh si diresse al suo alloggiamento nella caserma dei cadetti, i giovani scapoli che non vivevano con i genitori. Dopo essersi lavato, si recò nei compartimenti di suo zio, presso cui lavorava per guadagnarsi da vivere. Quando entrò, sua zia alzò gli occhi ma non disse nulla, come si conveniva a una donna.

«Ciao, Hugh» disse lo zio. «Sei andato ancora in esplorazione?»

«Lauto pasto, zio. Sì.»

L'uomo, flemmatico e dotato di buonsenso, sorrise con indulgenza.

«Fin dove ti sei spinto e che cosa hai trovato?»

La zia, che era uscita in silenzio dal compartimento, ricomparve con la cena di Hugh e gliela pose davanti. Il giovane ci si avventò sopra, e non gli passò neanche per la mente di ringraziare. Prima di rispondere inghiottì un boccone.

«Siamo saliti in alto. Ci siamo arrampicati fin quasi al livello del non peso. E un mutante ha cercato di spaccarmi il cranio.»

Lo zio si mise a ridacchiare.

«Ci rimetterai la pelle un giorno o l'altro in uno di quei passaggi, ragazzo. Sarebbe meglio che ti occupassi un po' di più dei miei affari, in previsione del giorno in cui morirò e mi toglierò dai piedi.»

Hugh fece un'espressione corrucciata.

«Ma tu, zio, non hai proprio nessuna curiosità?»

«Io? Ho curiosato abbastanza da giovane. Sono arrivato sino in fondo al passaggio principale e sono tornato al villaggio. Ho attraversato tutto il Settore Buio, con un branco di mutanti alle calcagna. Vedi questa cicatrice?»

Hugh diede alla cicatrice un'occhiata di cortesia. L'aveva già vista un'infinità di volte e aveva sentito raccontare la storia fino alla noia. Un solo giro della Nave... figurarsi! Lui voleva andare ovunque, vedere tutto e scoprire il perché delle cose. Per esempio, quei livelli superiori... se agli uomini non era lecito arrivarvi, perché Jordan li aveva creati?

Ma tenne per sé i suoi pensieri e continuò a mangiare.

Lo zio cambiò discorso.

«Ho occasione di andare dal Testimone. John Black sostiene che gli devo tre maiali. Vuoi venire anche tu?»

«Ecco, veramente no, credo di no. Aspetta... ma sì, ti accompagno.»

«Sbrighiamoci, allora.»

Si fermarono alla caserma, dove Hugh sosteneva di dover sbrigare una faccenda. Il Testimone viveva in un piccolo compartimento maleodorante sul lato opposto della zona comune, proprio di fronte alla caserma, dove poteva essere facilmente rintracciato da chiunque avesse bisogno del suo consiglio. Lo trovarono seduto sulla soglia, intento a stuzzicarsi i denti con un'unghia.

Il suo apprendista, un ragazzo con la faccia foruncolosa e l'espressione assorta dei miopi, gli stava accoccolato alle spalle.

«Lauto pasto» disse lo zio di Hugh.

«Lauto pasto a te, Edard Hoyland. Sei venuto per affari o per tenere compagnia a un povero vecchio?»

«Per entrambe le cose» rispose diplomaticamente lo zio di Hugh. Dopo di che espose il motivo della sua visita.

«Qual è il problema?» chiese il Testimone. «Il contratto parla chiaro: "John consegna dieci sacchi d'avena, e stabilisce il prezzo di due maiali; Ed mena la sua scrofa alla monta, John riceve il pagamento quando i maiali sono cresciuti". Quanto sono grandi ora i due porcelli, Edard Hoyland?»

«A sufficienza» rispose Edard Hoyland «ma il guaio è che John Black adesso, invece dei due maiali pattuiti, ne pretende tre.»

«E tu digli di andare ad affogarsi. Il Testimone ha parlato!»

E scoppiò in una risata chioccia.

I due chiacchierarono per un po', Edard Hoyland raccontò alcuni eventi che gli erano accaduti di recente, cercando di soddisfare l'insaziabile curiosità del vecchio per i dettagli. Hugh rimase rispettosamente in silenzio, mentre i due uomini parlavano. Ma, quando suo zio si mosse per andare, si decise ad aprire la bocca.

«Io mi fermo ancora un po', zio.»

«Fa' come vuoi. Lauto pasto, Testimone.»

«Lauto pasto, Edard Hoyland.»

«Ti ho portato un regalo, Testimone» disse Hugh appena suo zio fu abbastanza lontano da non sentirlo.

«Mostramelo.»

Hugh gli diede un pacchetto di tabacco che aveva preso nel suo armadietto in caserma. Il Testimone accettò il dono senza ringraziare e lo gettò al suo apprendista, che lo prese in consegna. «Entra pure» disse il Testimone. Poi si rivolse all'apprendista: «Ehi, tu... Porta una sedia al cadetto.»

«E ora, figliolo» riprese quando furono entrambi seduti «raccontami che cosa stai facendo.»

Hugh lo accontentò e dovette ripetere, senza tralasciare un solo particolare, tutti gli incidenti delle sue ultime esplorazioni, mentre il Testimone continuava a lamentarsi della sua incapacità di ricordare con precisione tutto quello che aveva visto.

«Voi giovani siete incapaci, completamente incapaci» dichiarò. «Perfino quel giovinastro» e con un cenno della testa indicò il suo apprendista «non è capace di ricordare, sebbene valga una dozzina di volte più di te, quanto a questo. Ci crederesti che non riesce a tenere a mente mille versi al giorno? Eppure è convinto di poter prendere il mio posto, quando io me ne sarò andato. Quando facevo io l'apprendista, avevo preso l'abitudine, per addormentarmi, di canticchiare un migliaio di versi. Barche che fanno acqua, ecco che cosa siete voi giovani.»

Hugh non replicò all'accusa, ma aspettò che il vecchio riprendesse a parlare, cosa che egli fece con tutto comodo.

«Volevi chiedermi qualcosa, ragazzo?»

«In un certo senso, sì, Testimone.»

«Bene, dunque, dimmi. Non star qui a tergiversare.»

«Volevo sapere se ti sei mai arrampicato fino al livello del non peso.»

«Io? No, davvero! Studiavo da Testimone, seguivo la mia vocazione. Avevo da imparare i versi di tutti i Testimoni che mi hanno preceduto, e non mi restava certo il tempo per svaghi puerili!»

«Speravo tu sapessi dirmi che cosa potrei trovare lassù.»

«Questo è un altro paio di maniche. Io non mi sono mai spinto fin lì, ma conservo i ricordi di molte persone che ci sono state, più di quante tu potrai mai conoscere. Sono vecchio, io. Ho conosciuto il padre di tuo padre e, prima di lui, il tuo bisnonno. Che cosa vorresti sapere?»

«Ecco...»

Che cosa voleva sapere esattamente? Come esprimere con una domanda quello che era soprattutto un dolore che lo tormentava, una curiosità bruciante? D'altra parte...

«Vorrei sapere che cosa significano tutte queste cose, Testimone. Perché ci sono tutti quei livelli sopra di noi?»

«Eh? Come sarebbe a dire? Nel nome di Jordan, figlio mio, io faccio il Testimone, non lo scienziato!»

«Pensavo lo sapessi. Mi dispiace.»

«Certo che lo so. Quello che cerchi si trova nei Versi del Principio.»

«Li ho già sentiti.»

«Ascoltali ancora. Troverai le risposte a tutti i tuoi quesiti, se sarai abbastanza saggio da vederle. Ascoltami. Anzi... questa è una buona occasione per il mio apprendista di mostrare la sua erudizione... Ehi, tu! Facci sentire i Versi del Principio e... attento al ritmo.»

L'apprendista si passò la punta della lingua sulle labbra e cominciò: «In principio era Jordan, che pensava in solitudine i Suoi pensieri.»

"In principio era la tenebra, l'informe, il non essere, e l'Uomo non esisteva.

"Dalla solitudine venne il desiderio, dal desiderio la visione.

"Dal sogno nacque lo scopo, lo scopo generò la decisione.

"Jordan levò alta la mano, e la Nave fu.

"Confortevoli cabine e silos di grano dorato a perdita d'occhio.

"Scale e passaggi, porte e rifugi per proteggere chi ancora non era nato.

"Jordan guardò la Propria Opera e se ne compiacque, gli parve adatta a una razza che ancora non esisteva.

"Pensò l'Uomo, e l'Uomo fu; nei suoi pensieri cercò la chiave.

"Lasciato libero, l'Uomo avrebbe disobbedito al Creatore; senza legge, avrebbe distrutto il Piano.

"Così, Jordan dettò il Regolamento, norme per tutti gli uomini.

"A ciascun uomo assegnò un compito e un ruolo, per servire un fine che non potevano comprendere.

"Agli uni il comandare, agli altri l'obbedire, e l'ordine regnò tra gli uomini.

"Creò l'Equipaggio affinché ciascuno assolvesse il proprio compito, e gli scienziati dovevano dirìgere il Piano.

"Sopra tutti creò il Capitano, lo volle giudice della razza umana.

"Così era nell'Età dell'Oro!

"Jordan è perfetto, chiunque si trovi sotto di lui compie azioni imperfette.

"Invidia, Avidità e Superbia cercarono menti in cui depositare i loro semi.

"E ci fu un uomo che li ospitò: il maledetto Huff, il primo a peccare!

"Con il suo perverso consiglio egli indusse la ribellione, seminò il dubbio dove prima non esisteva.

"Il sangue dei martiri macchiò le lastre del pavimento, il Capitano di Jordan fece il Viaggio.

"Calarono le tenebre..."

Il vecchio colpì il ragazzo sulla bocca con un violento manrovescio.

«Riprova!»

«Dall'inizio?»

«No, da dove ti sei perso.»

L'apprendista esitò, poi ritrovò il giusto ritmo. «Le tenebre calarono su tutti i ponti e il Male trionfò sulla virtù...»

La voce del ragazzo continuò la monotona litania, un verso dopo l'altro, cantilenando le frasi ritmiche, e rievocando, seppure con qualche imprecisione, l'antica, antichissima storia di peccato, ribellione e tenebre discese sull'uomo. Narrò di come la saggezza alla fine avesse prevalso e i capi dei ribelli fossero stati dati in pasto al Convertitore. Raccontò come alcuni rivoltosi fossero sfuggiti al Viaggio e fossero sopravvissuti, generando i mutanti, e un nuovo Capitano fosse stato scelto dopo molte preghiere e sacrifici.

Hugh, inquieto, non riusciva a stare fermo e strascicava i piedi.

Trattandosi dei Sacri Versi, senza dubbio dovevano contenere le risposte alle sue domande, ma lui non era abbastanza intelligente da trovarle. Perché? Che cosa significava tutto ciò? Possibile che nella vita non ci fosse altro che mangiare, dormire e, alla fine, partire per il lungo Viaggio? Forse Jordan lo aveva destinato a non capire? Ma allora perché quella pena nel cuore? Quella fame che non se ne andava, nonostante i lauti pasti?

 

Stava interrompendo il digiuno, dopo il sonno, quando un attendente si presentò alla porta dei compartimenti di suo zio.

«Lo scienziato richiede la presenza di Hugh Hoyland» disse cantilenando.

Hugh capì che lo scienziato era il Tenente Nelson, incaricato del benessere fisico e spirituale del settore della Nave in cui si trovava il villaggio dove era nato. Inghiottì l'ultimo boccone della colazione e si affrettò a seguire l'attendente.

«Il cadetto Hoyland!» lo annunciò l'attendente.

Lo scienziato sollevò lo sguardo dal suo cibo.

«Oh, bene» disse. «Avanti, ragazzo. Siediti. Hai mangiato?»

Hoyland fece cenno di sì, ma i suoi occhi si posarono incuriositi sulla strana frutta che il Tenente aveva davanti. Nelson, che aveva seguito il suo sguardo, lo invitò a servirsi.

«Assaggia questi fichi. Sono frutto di un nuovo innesto. Li ho fatti venire dalla fiancata più lontana. Avanti, serviti, alla tua età un uomo ha sempre posto per qualche boccone in più.»

Hugh accettò con molto imbarazzo. Non aveva mai mangiato in presenza di uno scienziato. Il vecchio appoggiò la schiena alla sedia, si pulì le dita sulla camicia, si lisciò la barba e disse: «È un po' di tempo che non ti vedo, ragazzo mio. Raccontami che cosa hai fatto.» Ma prima che Hugh potesse rispondere, proseguì: «No, non dirmi niente. Te lo dirò io. Innanzitutto, mi risulta che hai esplorato e sei salito ai livelli alti, senza rispettare molto le zone proibite. Non è così?»

Fissò il giovane negli occhi, e Hugh iniziò a balbettare, cercando di rispondere. Ma anche questa volta, Nelson non gliene lasciò il tempo.

«Non importa. Lo so, e tu sai che lo so. Non ne sono particolarmente dispiaciuto, ma ciò mi ha costretto a riflettere sul fatto che è ormai tempo per te di decidere quello che intendi fare della tua vita. Hai qualche progetto?»

«Be'... niente di preciso, signore.»

«E quella ragazza, Edris Baxter? Hai intenzione di sposarla?»

«Veramente... non saprei, signore. Penso di volerlo e suo padre è d'accordo, credo. Solo...»

«Solo che cosa?»

«Mah... Suo padre vorrebbe che andassi a lavorare come apprendista nella sua fattoria. Suppongo sia una buona idea. La sua tenuta, insieme all'attività di mio zio, rappresenterebbe una buona proprietà.»

«Ma non sei sicuro, vero?»

«Ecco... non lo so.»

«È giusto che tu abbia dei dubbi. Tutto ciò non è adatto a te. Ho altri progetti. Dimmi, ti sei mai chiesto perché ti ho insegnato a leggere e scrivere? L'hai fatto senz'altro. Ma hai tenuto i tuoi pensieri per te. E hai fatto bene. Ora, però, stammi a sentire. Ti osservo da quando eri bambino. Hai più immaginazione della media, più curiosità, più vitalità. E sei un capo nato. Fin da bambino eri diverso dagli altri. Il tuo cranio, per esempio, era più sviluppato del normale, e ci fu chi, quando fosti ispezionato alla nascita, votò per gettarti immediatamente nel Convertitore. Ma io riuscii a impedirlo. Volevo vedere che cosa saresti diventato. La vita del contadino non è fatta per persone come te. Tu sei destinato a diventare uno scienziato.»

Il vecchio tacque e studiò il volto di Hugh. Questi, confuso, era rimasto senza parole. Nelson riprese: «Sì, è proprio così. Con un uomo del tuo temperamento ci sono soltanto due cose da fare: renderlo uno dei custodi o affidarlo al Convertitore.»

«Intende dire, signore, che non ho altra scelta?»

«Se la metti in termini così brutali... sì. Lasciare i più intelligenti tra le file dell'Equipaggio significa rischiare l'eresia. Non possiamo correre un tale pericolo. Già una volta l'eresia si diffuse tra noi e fu sul punto di annientare la razza umana. Ti sei fatto notare per le tue straordinarie capacità: ora dovrai erudirti nel campo del retto pensiero, essere iniziato ai Misteri, affinché tu possa diventare una forza di conservazione e non il focolaio di un'infezione, fonte di guai.»

L'attendente ricomparve con due pesanti fagotti, che lasciò cadere sul pavimento. Hugh li guardò di sfuggita ed esclamò:

«Ma quelle sono le mie cose!»

«Esattamente» confermò Nelson. «Le ho mandate a prendere, perché d'ora in poi abiterai qui. Ci rivedremo più tardi e daremo inizio ai tuoi studi, a meno che tu abbia in mente qualcosa di meglio.»

«No, signore, non mi pare. Devo ammettere di essere un po' confuso. Tutto ciò, suppongo, significa che non potrò sposarmi.»

«Oh, quanto a questo» rispose Nelson con noncuranza «sposa pure quella ragazza, se proprio ci tieni. Il padre non potrebbe opporsi, ora. Ti avverto, però: te ne stancherai presto.»

Hugh Hoyland divorò gli antichi libri che il suo maestro gli permetteva di leggere, e per molti, molti sonni non provò il desiderio di salire ai ponti superiori né quello di lasciare il compartimento di Nelson. Più d'una volta gli parve di essere sulla strada che portava alla soluzione del mistero — un mistero che non riusciva a definire, neppure in forma di domanda — ma poi si ritrovava più confuso che mai. Diventare uno scienziato, evidentemente, era molto più difficile di quanto avesse creduto.

Un giorno, mentre si scervellava sulle bizzarre tortuosità che caratterizzavano gli antichi e cercava di scoprire la chiave della loro strana retorica e dei loro insoliti termini, Nelson entrò nella piccola cabina che gli era stata destinata e, ponendogli paternamente la mano sulla spalla, gli chiese: «Allora, ragazzo, come va?»

«Abbastanza bene, signore, direi» rispose Hugh mettendo il libro da parte. «Alcune cose, però, mi sono ancora un po' oscure, anzi, molto oscure per essere sincero.»

«Non potrebbe essere diversamente» rispose il vecchio per nulla turbato. «Ho lasciato che affrontassi queste letture da solo, affinché ti rendessi conto delle insidie a cui può andare incontro una mente incolta. Molte di queste cose non possono essere comprese senza una guida. Che cosa stavi leggendo?» Prese il libro e lo guardò. Si intitolava Elementi di fisica moderna.

«È uno degli scritti sacri più preziosi» commentò «ma chi non è stato iniziato a questo sapere, senza aiuto, non può trarne il minimo profitto. Innanzitutto, ragazzo mio, devi capire che i nostri antenati, nonostante tutta la loro perfezione spirituale, non vedevano le cose come noi. Erano inguaribili romantici, e non razionalisti come noi, e le nozioni che ci hanno tramandato, sebbene indiscutibilmente vere, sono spesso avvolte in un linguaggio allegorico. Per esempio, sei arrivato alla Legge di Gravitazione Universale?»

«L'ho letta.»

«E l'hai capita? No, vedo che non l'hai capita.»

«Ecco» disse Hugh, sulla difensiva «non mi pare che abbia un significato. Mi sembra solo una sciocchezza, signore, se mi permette.»

«Questo dimostra quanto stavo dicendo. Tu la intendevi in senso letterale, e lo stesso vale per le leggi che governano gli apparecchi elettrici di cui si parla in un altro punto del libro. Due corpi si attraggono con una forza direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Sembrerebbe una delle tante leggi relative ai semplici fenomeni fisici, no? Invece, non si tratta affatto di questo: era il poetico modo con cui i nostri avi formulavano la legge di attrazione che regola l'emozione dell'amore. I corpi a cui alludevano sono i corpi umani, la massa è la loro capacità di amare. I giovani hanno una capacità di amare superiore a quella dei vecchi; quando sono vicini si innamorano, quando si separano dimenticano presto l'amore. "Lontano dagli occhi, lontano dal cuore". È altrettanto semplice. Ma tu in questa legge cercavi un significato più profondo.»

Hugh sorrise.

«Non l'ho mai pensata in questo modo. Capisco che avrò bisogno di molto aiuto.»

«Hai altri problemi?»

«Be'... sì, parecchi, per la verità, anche se, così su due piedi, non mi vengono in mente. Una cosa vorrei chiederle: è vero che i mutanti si possono considerare esseri umani come noi?»

«Vedo che hai dato ascolto a voci infondate. La risposta a questa domanda è tanto sì quanto no. È vero che i mutanti originariamente discendevano da esseri umani, ma non fanno più parte dell'Equipaggio e non si possono più considerare come membri della razza umana, perché hanno contravvenuto alla Legge di Jordan.»

«È un argomento molto vasto» proseguì, dopo averci riflettuto. «Ci sono dubbi anche riguardo al significato originario del termine mutante. È un fatto che tra i loro antenati si annoverino gli ammutinati sfuggiti alla morte al tempo della ribellione. Ma nelle loro vene scorre anche il sangue dei molti mutanti che nacquero durante l'Epoca Oscura. Come puoi certo immaginare, a quel tempo non era ancora in vigore la saggia Legge che impone di ispezionare ogni neonato per accertare che non porti il marchio del peccato e che obbliga a gettare nel Convertitore chiunque presenti delle mutazioni. Ci sono strane e orrende creature che strisciano per i passaggi oscuri e si annidano nei livelli disabitati.»

Hugh ci pensò per qualche istante, poi chiese: «Ma perché queste mutazioni continuano a verificarsi anche tra noi esseri umani?»

«È semplice. Il seme del peccato è ancora in noi. Ogni tanto riappare, personificato. Distruggendo quei mostri contribuiamo a purificare la specie, affinché si compia il Disegno di Jordan, e l'uomo si avvicini alla nostra dimora celeste, meta del Viaggio: la remota Centauri.»

La fronte di Hoyland si corrugò di nuovo.

«Un'altra cosa mi sfugge. Molti di questi antichi scritti parlano del Viaggio come se si trattasse di un vero e proprio spostamento, un movimento verso qualche luogo, come se la Nave stessa non fosse altro che un carro. Com'è possibile?»

Nelson sorrise.

«Come può essere, infatti? Come potrebbe muoversi lo sfondo rispetto al quale tutto il resto si muove? La risposta, naturalmente, è semplice: ancora una volta hai confuso il linguaggio allegorico con quello che si usa nella vita di tutti i giorni. Ovviamente, la Nave è possente, immobile in senso fisico. Come potrebbe muoversi l'intero universo? Tuttavia, si muove senz'altro, in senso spirituale. Ogni atto di devozione che facciamo ci avvicina alla meta suprema, il Disegno di Jordan.»

Hugh annuì.

«Credo di capire.»

«Naturalmente, Jordan avrebbe potuto dare al mondo una forma diversa da quella della Nave, se fosse stata più adatta al Disegno. Quando l'umanità era giovane e poetica, i devoti facevano a gara tra loro nell'immaginare i mondi fantastici che Jordan avrebbe potuto creare. Una scuola inventò addirittura la leggenda di un mondo capovolto, fatto di spazi infiniti e vuoti, se si eccettuano puntini luminosi e mostruose creature mitologiche senza corpo. Lo chiamarono "mondo celeste" o "cielo", quasi a contrastare la possente realtà della Nave. Sembravano non stancarsi mai di speculare su questo mondo fantastico, arricchendolo di particolari, e di creare immagini per rappresentare qualcosa che pensavano potesse assomigliare a tale mondo. Probabilmente, lo facevano a maggior gloria di Jordan, e chi potrebbe affermare che Egli considerasse inaccettabili i loro sogni? Ma in quest'epoca moderna abbiamo cose più serie di cui occuparci.»

A Hugh non interessava l'astronomia. Perfino la sua mente incolta era stata in grado di vedere nelle sue deliranti speculazioni un'allegoria. Tornò quindi a problemi più concreti.

«Dato che i mutanti sono il seme del peccato, perché non facciamo alcuno sforzo per annientarli? Questo non ci avvicinerebbe al Disegno di Jordan?»

Lo scienziato meditò un attimo prima di rispondere.

«È una domanda legittima e merita una risposta sincera. Dato che stai per diventare uno scienziato, devi conoscere la risposta. Considera il problema da questo punto di vista: la Nave può dare da vivere a un Equipaggio limitato. Se ci moltiplicassimo all'infinito, verrebbe un giorno in cui non ci sarebbero più lauti pasti per nessuno. Non è quindi meglio che alcuni di noi periscano negli scontri con i mutanti, anziché arrivare al punto di doverci uccidere a vicenda per il cibo? Le strade di Jordan sono imperscrutabili: perfino i mutanti rientrano nel suo Disegno.»

Le spiegazioni di Nelson sembravano ragionevoli, ma Hugh non riusciva a convincersene pienamente. Quando entrò in servizio attivo come scienziato subalterno addetto al funzionamento della Nave, scoprì che alcune persone la pensavano diversamente. Com'era consuetudine, fece domanda per trascorrere un periodo in servizio presso il Convertitore. Non era un lavoro faticoso, si trattava soprattutto di verificare i materiali di scarto immessi da ogni villaggio, registrare gli apporti e accertarsi che nessun metallo riciclabile fosse introdotto nelle camere di raccolta. La sua attività, però, lo mise in contatto con Bill Ertz, l'assistente dell'Ingegnere Capo, un uomo poco più giovane di lui.

Discusse con Ertz delle cose che aveva imparato da Nelson e fu colpito dal suo atteggiamento.

«Mettiti bene in testa una cosa, ragazzo» gli disse Ertz. «Il nostro è un lavoro pratico per uomini pratici. Scordati tutte queste sciocchezze romantiche. Il Disegno di Jordan! Roba per tenere buoni i contadini e farli restare al loro posto, ma tu non lasciarti imbambolare! Non c'è nessun Disegno... tranne quello di badare a noi stessi. La Nave ha bisogno di luce, calore ed energia per cucinare e irrigare. Ed è proprio per questo che siamo noi a comandare l'Equipaggio, perché senza queste cose non può tirare avanti. Quanto alla stupida tolleranza verso i mutanti, vedrai che presto ci saranno dei cambiamenti. Tieni la bocca chiusa e unisciti a noi.»

Hugh si rese conto che gli scienziati più giovani, alleatisi tra loro, si aspettavano la sua lealtà. Si trattava di un gruppo compatto formatosi in seno a un gruppo più vasto, e ne facevano parte uomini capaci e determinati, che lavoravano duramente per ottenere il miglioramento delle condizioni su tutta la Nave, o perlomeno quello che giudicavano tale. Tra loro non c'erano divergenze, perché un nuovo adepto che si rifiutasse di vedere le cose come loro non durava a lungo: o dimostrava di non essere all'altezza del suo compito, e si trovava presto ricacciato tra le fila dei contadini, o, com'era più probabile, gli capitava un incidente e andava a finire nel Convertitore.

Hoyland, d'altra parte, cominciò ad accorgersi che avevano ragione.

Erano realisti. La Nave era la Nave. Era un dato di fatto che non esigeva alcuna spiegazione. Quanto a Jordan... chi Lo aveva mai visto? Chi Gli aveva mai parlato? In cosa consisteva quel Suo oscuro Disegno? Lo scopo della vita era vivere. Un uomo nasceva, viveva la sua vita, e alla fine se ne andava al Convertitore. Era semplice, non c'era nessun Mistero, nessun Disegno supremo e nessuna Centauri. Queste storie romantiche erano strascichi di quando la razza si trovava nella sua infanzia e gli uomini ancora non possedevano l'intelligenza e il coraggio per guardare in faccia la realtà.

Hugh smise presto di rompersi il cervello sull'astronomia e la fisica mistica e su tutta la mitologia che gli avevano insegnato a rispettare. Lo divertivano ancora, più o meno, i Versi del Principio e tutte le vecchie storie sulla Terra — a ogni modo, che Huff era la "Terra"? — ma adesso si rendeva conto che cose del genere potevano essere prese sul serio solo dai bambini e dagli stolti.

Inoltre, c'era molto lavoro da fare. I giovani, pur riconoscendo teoricamente l'autorità degli anziani, avevano progetti propri, il primo dei quali era lo sterminio sistematico dei mutanti. A parte questo, non avevano ancora piani precisi, ma contavano di utilizzare appieno le risorse della Nave, comprese quelle dei livelli superiori. I giovani potevano procedere con i loro piani senza arrivare a una rottura con gli anziani, dato che gli scienziati più vecchi non si curavano molto dell'ordinaria amministrazione della Nave.

Il Capitano in carica era diventato così grasso che raramente usciva dalla sua cabina, ed era il suo giovane aiutante, uno dei loro, a occuparsi di tutto per lui.

Hoyland aveva visto l'Ingegnere Capo una sola volta, in occasione della cerimonia, meramente religiosa, con cui si celebrava l'armamento delle stazioni di atterraggio.

Il piano di annientamento dei mutanti esigeva frequenti e sistematiche ricognizioni dei livelli superiori. E fu proprio nel corso di una ricognizione che Hugh cadde nuovamente nell'imboscata di un mutante.

Questo mutante aveva una mira molto più precisa del precedente. I compagni di Hoyland, costretti a ritirarsi a causa della superiorità numerica degli avversari, lo abbandonarono, dandolo per morto.

 

Joe-Jim Gregory stava giocando a scacchi con se stesso. Un tempo giocava a carte, ma Joe, la testa di destra, aveva avuto il sospetto che Jim, quella di sinistra, barasse. Avevano litigato, così Joe-Jim decise di rinunciare alle carte: aveva imparato molto presto, nella sua carriera di bicefalo, che due teste su un solo paio di spalle devono per forza trovare il modo di andare d'accordo.

Gli scacchi erano molto meglio: entrambe le teste riuscivano a vedere la scacchiera e non si potevano avere divergenze d'opinione.

Qualcuno bussò con forza alla porta metallica della cabina, interrompendo la partita. Joe-Jim sguainò il coltello da lancio e lo bilanciò tra le dita, pronto a servirsene.

«Avanti!» urlò Jim.

La porta si aprì e l'individuo che aveva bussato entrò camminando all'indietro (il solo modo sicuro, come tutti sapevano, di presentarsi a Joe-Jim). Il nuovo arrivato era alto non più di un metro e venti, con una corporatura tarchiata e una muscolatura massiccia. Su una spalla trasportava il corpo inanimato di un uomo, che teneva fermo con la mano.

Joe-Jim rinfoderò il suo coltello.

«Mettilo giù, Bobo» ordinò Jim.

«E chiudi la porta» soggiunse Joe. «Che cos'abbiamo qui?»

Era un giovane uomo, apparentemente morto, sebbene non presentasse alcuna ferita. Bobo gli palpò una coscia.

«Mangiare?» chiese speranzoso. Un rivolo di saliva gli usciva dalle labbra socchiuse.

«Forse» temporeggiò Jim. «L'hai ucciso?»

Bobo scosse la minuscola testa.

«Bravo, Bobo» approvò Joe. «Dove lo hai colpito?»

«Bobo colpito lui qui.» Il microcefalo premette un pollice esageratamente largo contro il corpo supino, nella regione compresa tra l'ombelico e lo sterno.

«Bel colpo!» esclamò Joe. «Con un coltello non avremmo potuto fare di meglio.»

«Bel colpo» convenne il nano senza grande entusiasmo. «Volere vedere?» chiese, facendo vibrare la fionda contento.

«Taci» rispose Joe, abbastanza gentilmente. «No, non vogliamo vedere, vogliamo farlo parlare.»

«Bobo sveglia lui» acconsentì il piccoletto, e con naturale brutalità cominciò a perseguire il suo scopo.

Joe-Jim lo allontanò con una manata, e applicò altri metodi di rianimazione, dolorosi ma decisamente meno drastici di quelli utilizzati dal nano.

Il giovane uomo si mosse e aprì gli occhi.

«Mangiare?» ripeté Bobo.

«No» disse Joe.

«Da quanto tempo non mangi?» chiese Jim.

Bobo scrollò il capo e si sfregò lo stomaco, indicando con una chiara pantomima che non metteva niente nello stomaco da molto, troppo tempo. Joe-Jim si avvicinò a un armadietto, lo aprì e prese un pezzo di carne. Lo tenne un momento a mezz'aria. Jim lo annusò e Joe allontanò la testa, arricciando il naso per il disgusto. Joe-Jim lo lanciò a Bobo che, felice, lo prese al volo.

«Ora fila!» ordinò Jim.

Il nano andò via trotterellando e si chiuse la porta alle spalle. Joe-Jim si avvicinò al prigioniero e lo stuzzicò con un piede.

«Su, parla» disse Jim. «Chi Huff sei?»

Il giovane rabbrividì, si mise una mano sulla testa, poi provò a mettere a fuoco ciò che gli stava intorno, cercò di sollevarsi in piedi, muovendosi goffamente a causa del basso peso che caratterizzava quel livello, e allungò la mano per prendere il suo coltello, ma l'arma non era più nella cintura.

Joe-Jim, invece, aveva sfoderato il suo e lo brandiva. «Cerca di fare il bravo e non ti accadrà niente di male» disse. «Come ti chiamano?»

Il giovane si inumidì le labbra con la punta della lingua e i suoi occhi fecero rapidamente il giro della stanza.

«Avanti, parla!» ordinò Joe.

«Perché stare a perdere tempo con lui?» disse Jim. «Per me, è buono soltanto da mangiare. Meglio richiamare Bobo.»

«Non c'è fretta» rispose Joe. «Voglio parlare con lui. Come ti chiami?»

Il prigioniero lanciò ancora un'occhiata al coltello e mormorò: «Hugh Hoyland.»

«Questo non ci dice molto» commentò Jim. «Che mestiere fai? Da quale villaggio vieni? E che cos'eri venuto a fare nella zona dei mutanti?»

Ma questa volta Hoyland s'incupì. Perfino con il coltello premuto sulle costole, non fece altro che mordersi le labbra.

«Lasciamo perdere» disse Joe. «Non è che uno stupido colono.»

«Lo liquidiamo?»

«No, per adesso no. Rinchiudiamolo.»

Joe-Jim aprì la porta di un piccolo compartimento e vi spinse dentro Hoyland con il coltello.

Richiuse la porta, mise il chiavistello e tornò alla sua partita.

«A te la mossa, Jim.»

Il compartimento in cui avevano rinchiuso Hugh Hoyland era buio. Tastando le paratie metalliche, il giovane constatò che non c'erano aperture, tranne la porta, massiccia e ben chiusa.

Alla fine, si distese sul pavimento e si abbandonò a vane riflessioni.

Ebbe tutto il tempo di pensare e di addormentarsi varie volte, nonché di farsi venire molta fame e moltissima sete.

Quando Joe-Jim ritrovò abbastanza interesse per il suo prigioniero da aprire la porta della cella, non vide subito Hoyland. Il giovane aveva progettato varie volte quello che avrebbe fatto quando si fosse spalancato l'uscio e fosse arrivata la sua occasione, ma al momento opportuno giaceva senza forze in uno stato semicomatoso. Joe-Jim lo trascinò fuori.

Il trambusto lo destò un po' dal suo torpore. Si sedette e si guardò intorno.

«Sei pronto a parlare?» chiese Jim.

Hoyland aprì la bocca, ma non riuscì a pronunciare neanche una parola.

«Non vedi che ha la gola troppo secca per parlare?» disse Joe al suo gemello. Poi, rivolgendosi a Hugh: «Parlerai se ti diamo da bere?»

Hoyland sembrò disorientato, poi annuì energicamente.

Joe-Jim ritornò poco dopo con una brocca d'acqua. Hugh bevve con avidità, e quando fece una pausa sembrò sul punto di svenire.

Joe-Jim si riprese la brocca. «Basta così per ora» disse Joe. «Parlaci di te.»

Hugh obbedì. Di tanto in tanto, fu sollecitato a entrare nei dettagli.

 

Hugh accettò quella che de facto era una condizione di schiavitù senza opporre particolare resistenza né disperarsi eccessivamente. La parola "schiavo" non figurava nel suo vocabolario, ma si trattava di una condizione normale per la sua esperienza. C'era sempre stato chi comandava e chi obbediva, non riusciva a immaginare un'altra condizione, un altro tipo di organizzazione sociale. Era un fatto naturale.

Nonostante questo, di tanto in tanto pensava alla fuga.

Ma pensarci fu il massimo a cui seppe arrivare. Joe-Jim intuì i suoi propositi e gli spiegò la situazione con molta chiarezza: «Non metterti in testa strane idee, giovanotto. Senza un coltello, non potresti scendere nemmeno tre livelli, in questa parte della Nave. E anche se riuscissi a rubarmi un coltello, non riusciresti ugualmente a raggiungere la zona dell'alto peso. Inoltre, c'è Bobo.»

Hugh cercò per un attimo di ricordarsi chi fosse, poi chiese: «Bobo?»

Jim sorrise e rispose: «Abbiamo dato a Bobo il permesso di macellarti, se lo desidera, nel caso in cui tu provassi anche solo a mettere la testa fuori di qui senza di noi. Ora dorme vicino alla porta e trascorre lì gran parte del suo tempo.»

«Lo abbiamo fatto solo per correttezza» disse Joe. «C'è rimasto male, quando abbiamo deciso di risparmiarti.»

«A proposito» suggerì Jim, girando la testa verso quella del fratello «che ne dici di divertirci un po'?»

Si rivolse di nuovo a Hugh: «Sai lanciare un coltello?»

«Certo» rispose il giovane.

«Facci vedere. Qui.» Joe-Jim gli porse il suo coltello. Hugh lo bilanciò tra le dita. «Prova il mio bersaglio.»

Joe-Jim aveva un tirassegno di plastica appeso alla parete, all'estremità opposta della stanza rispetto alla sua poltrona preferita, da cui era solito esercitarsi. Hugh prese la mira e con un gesto del braccio troppo rapido per poter essere seguito dallo sguardo, lanciò il coltello. Era ricorso al lancio segreto, che permetteva di raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo, il pollice sulla lama, le altre dita unite.

La lama si piantò vibrando nel bersaglio, proprio al centro della zona consumata dai colpi migliori di Joe-Jim.

«Bravo!» approvò Joe. «Che cos'hai in mente, Jim?»

«Diamogli un coltello e vediamo quanto lontano riesce ad andare.»

«No» disse Joe. «Non sono d'accordo.»

«Perché no?»

«Se vince Bobo restiamo con un servo di meno, se vince Hugh perdiamo sia lui sia Bobo. È uno spreco.»

«Va bene, se insisti.»

«Insisto. Ragazzo, vai a prendere il coltello.»

Hugh obbedì. Non gli era neanche venuto in mente di usare il coltello contro Joe-Jim. Il padrone era il padrone. Per un servo l'idea di attaccare il padrone non era semplicemente amorale, ma anche così delirante che non l'aveva assolutamente presa in considerazione.

 

Hugh si aspettava che Joe-Jim sarebbe rimasto impressionato dalla sua cultura di scienziato. Non andò affatto così. Joe-Jim, ma soprattutto Jim, amava discutere. In poco tempo, prosciugò Hugh di tutto ciò che sapeva e poi, per così dire, lo mise da parte. Hoyland si sentì umiliato. Dopo tutto, non era forse uno scienziato? Uno dei pochi che sapevano leggere e scrivere?

«Smettila» gli disse Jim. «Leggere è facile. Sapevo farlo quando tuo padre non era ancora nato. Credi d'essere il primo scienziato che io abbia avuto al mio servizio? Gli scienziati... bah! Una manica di ignoranti!»

Per provare a ristabilire la sua credibilità intellettuale, Hugh espose le teorie dei giovani scienziati: il rigoroso attaccamento ai fatti, lo spietato realismo che respingeva ogni interpretazione religiosa e accettava la Nave per quello che era. Si aspettava che Joe-Jim approvasse questo modo di vedere le cose, gli sembrava corrispondesse al suo temperamento.

Le due teste gli risero in faccia.

«Ma davvero» insistette Jim, quando smise di ridere «voi giovinastri siete così stupidi? In questo caso, siete anche peggio dei vostri vecchi!»

«Eppure, hai appena finito di dire» ribatté Hugh, risentito «che le nostre convinzioni religiose sono solo fandonie! È proprio quello che pensano i miei amici. Loro vogliono liberarsi di tutte quelle antiquate sciocchezze!»

Joe stava per dire qualche cosa, ma Jim lo interruppe: «Perché perdere tempo con lui? È un caso disperato.»

«Non sto perdendo tempo. Mi sto divertendo. È il primo con cui parlo da non so quanto che non abbia assolutamente alcuna possibilità di vedere la verità. Lasciami fare... Voglio capire se quella che ha sulle spalle è una testa o semplicemente un posto dove appendere le orecchie.»

«E va bene, discutete pure» si rassegnò Jim «ma cercate di parlare piano. Ho voglia di farmi una dormitina.»

La testa di sinistra chiuse gli occhi e dopo qualche istante iniziò a russare. Joe e Hugh ripresero la loro discussione a voce bassa.

«Il guaio di voi giovani» disse Joe «è che se leggete una cosa e non vi risulta subito chiara, pensate che non possa essere vera. Con i vostri anziani, invece, il problema era che reinterpretavano qualsiasi cosa non capissero, attribuendole un significato diverso da quello che aveva, e poi credevano di averla capita. Nessuno di voi ha tentato di prendere le parole per come erano scritte e cercato di comprendere il loro significato. Oh, no, siete tutti troppo intelligenti per farlo, se non capite immediatamente una cosa, significa che non è così, che il suo significato è un altro.»

«Che vuoi dire?» chiese Hugh, sospettoso.

«Il Viaggio, per esempio. Che cosa significa per te?»

«Per me non significa niente, è solo una favoletta per tener buoni i contadini.»

«E ufficialmente qual è il suo significato?»

«Ecco... è il posto dove si va quando si muore o, per meglio dire, quello che si fa quando si muore: un Viaggio su Centauri.»

«E che cos'è Centauri?»

«Sarebbe... bada bene che io ti spiego le cose secondo la concezione ortodossa, io personalmente non credo a tutte queste stupidaggini... sarebbe la meta, il punto di arrivo del Viaggio, un luogo dove tutti sono felici e ci sono sempre lauti pasti.»

Joe scoppiò a ridere e Jim smise per un attimo di russare, aprì un occhio e si rimise a dormire con un grugnito.

«È esattamente quello che intendevo dire» riprese Joe, a voce bassa. «Voi non usate il cervello. Non ti è mai sorto il dubbio che il Viaggio potesse essere proprio quello che gli antichi libri dicevano che era... che la Nave e l'Equipaggio stiano veramente andando da qualche parte, che si stiano muovendo?»

Hoyland ci pensò. «Non vorrai che ti prenda sul serio! Dal punto di vista fisico, questo non è possibile. La Nave non può andare in nessun posto. Essa è già in ogni luogo. Noi possiamo fare un viaggio al suo interno, ma il Viaggio deve avere per forza un significato spirituale, ammesso che ne abbia uno.»

Joe implorò l'aiuto di Jordan.

«Senti» disse. «Cerca di far entrare nella tua testa dura quello che sto per dirti. Immagina un luogo molto più grande della Nave, un luogo molto più grande con dentro la Nave, che si muove. Riesci a immaginarlo?»

Hugh tentò. Si sforzò in ogni modo. Alla fine scosse la testa.

«È assurdo» disse. «Niente può essere più grande della Nave. Non può esistere un luogo che la contenga.»

«Oh, per Jordan! Ascolta... fuori dalla Nave, capisci? Giù, oltre il livello più basso, in una direzione qualunque. Il vuoto là fuori. Mi capisci?»

«Ma non c'è niente sotto il livello più basso. Per questo è il livello più basso.»

«Senti, se prendi un coltello e scavi un buco nel pavimento del livello più basso, dove ti porta questo buco?»

«Ma non si può scavare un buco nel pavimento. È troppo duro.»

«Supponi di poterlo fare e di scavare un buco. Dove porterà questo buco? Prova a immaginarlo.»

Hugh chiuse gli occhi e provò a immaginare di scavare un buco nel pavimento dell'ultimo livello, come se il pavimento fosse molle, molle come il formaggio. Cominciò a intravedere qualche vaga possibilità, una possibilità che lo sconvolgeva, che gli scuoteva l'anima. Si sentì precipitare, sprofondare in un buco che lui stesso aveva scavato e sotto il quale non c'erano livelli. Aprì gli occhi immediatamente. «Ma è una cosa terribile!» esclamò. «Non posso crederci!»

Joe-Jim si alzò.

«Farò in modo che tu ci creda» disse, risoluto «a rischio di farti rompere l'osso del collo!»

Si diresse con passo deciso verso la porta e l'aprì. «Bobo!» urlò. «Bobo!»

La testa di Jim si alzò di scatto. «Cosa c'è? Che succede?»

«Stiamo per portare Hugh al non peso.»

«A quale scopo?»

«Per fargli entrare un po' di sale in zucca.»

«Un'altra volta.»

«No, ora!»

«Va bene, va bene. Non c'è bisogno di scaldarsi. Tanto, ormai sono sveglio!»

 

Joe-Jim Gregory era tanto unico nella sua, o loro, capacità di usare il cervello quanto lo era nella sua struttura fisica. In qualunque circostanza sarebbe stato una personalità dominante, tra i mutanti era inevitabile che egli li guidasse, li comandasse, si facesse servire.

Se fosse stato assetato di potere, probabilmente avrebbe potuto organizzare i mutanti per combattere e sopraffare l'Equipaggio propriamente detto.

Gli mancava, però, la pulsione a farlo. Era per temperamento un intellettuale, uno spettatore, un osservatore. Lo interessavano il come e il perché delle cose, ma per soddisfare la sua volontà d'azione bastavano gli agi e le comodità.

Se fosse nato in due normali gemelli e in seno all'Equipaggio, è quasi certo che Joe-Jim si sarebbe occupato di questioni scientifiche, come quella di trovare la più semplice e soddisfacente risposta al problema della vita, e avrebbe potuto trascorrere il suo tempo piacevolmente, conversando e dedicandosi all'amministrazione. Date le circostanze, non aveva mai avuto un compagno che fosse alla sua altezza dal punto di vista intellettuale e aveva trascorso tre generazioni a leggere e rileggere i libri che i suoi tirapiedi avevano rubato per lui.

Le due metà della sua duplice persona avevano analizzato e discusso quello che avevano letto, e quasi sempre erano arrivati a formulare una teoria abbastanza coerente della storia e del mondo fisico. L'unica eccezione era rappresentata dalla letteratura, il cui concetto era loro completamente estraneo: non facevano alcuna distinzione tra i romanzi di cui la spedizione Jordan era stata fornita, e i testi scientifici.

Questo li aveva portati a una significativa divergenza d'opinione. Jim considerava Allan Quatermain il più grande uomo mai vissuto, Joe preferiva John Henry.

Entrambi amavano pazzamente la poesia, sapevano a memoria pagine e pagine di Kipling ed erano quasi altrettanto appassionati di Rhysling, "il cieco cantore delle rotte spaziali".

 

Bobo entrò camminando all'indietro. Joe-Jim puntò il pollice verso Hugh.

«Senti» disse Joe «lui sta per uscire.»

«Ora?» chiese Bobo felice, e sorrise, con la bava alla bocca.

«Tu e il tuo stomaco!» rispose Joe, dando dei colpi con le nocche delle dita sulla zucca di Bobo. «No, non lo mangi. Tu e lui, fratelli di sangue. Hai capito?»

«No mangiare lui?»

«No. Batterti per lui. Lui si batte per te.»

«Capito.» La testa di legno si rassegnò all'inevitabile con un'alzata di spalle. «Fratelli di sangue. Bobo sa.»

«Bene. Ora noi saliamo verso il luogo dove tutti volano. Tu vai avanti di vedetta.»

Cominciarono ad arrampicarsi in fila indiana, con Bobo in testa a controllare la situazione. Hoyland lo seguiva e Joe-Jim chiudeva la fila, Joe guardava davanti, Jim teneva d'occhio le spalle.

Salirono sempre più in alto, con il peso che, gradualmente, li abbandonava a ogni nuovo ponte. Alla fine, raggiunsero un livello oltre il quale non ci si poteva spingere, perché sul soffitto non c'erano aperture. Il ponte s'incurvava dolcemente, suggerendo che lo spazio in realtà avesse la forma di un gigantesco cilindro, ma sopra di loro una lastra metallica con un'analoga curvatura oscurava la vista e non permetteva di vedere se il ponte fosse veramente ripiegato su se stesso.

Non c'erano vere e proprie paratie; grandi puntali, tanto massicci da dare l'impressione di una forza eccessiva, non necessaria, si ergevano fitti intorno a loro, mettendo ancor più in risalto la distanza che separava il ponte dal soffitto.

Il peso era quasi scomparso. Se si rimaneva fermi il corpo si spostava delicatamente in giù, verso il "pavimento", ma "su" e "giù" erano termini del tutto privi di senso. A Hugh non piaceva; lo innervosiva. Bobo, invece, apparentemente ne traeva un grande godimento, sembrava abituato a quell'ambiente. Galleggiava nell'aria come un pesce nell'acqua, muovendosi a suo piacere fra i pilastri, le lastre del pavimento e il soffitto.

Joe-Jim seguì una direzione parallela all'asse comune del cilindro esterno e di quello interno, lungo un passaggio tra due file di puntali. Lungo il passaggio erano disposti dei corrimani, ed egli ne seguì uno come un ragno la sua tela. Procedeva a grande velocità, e Hugh gli stava dietro a fatica. Dopo un po' di tempo, capì che il trucco per muoversi facilmente, senza sforzo, era spingersi tenendo le braccia all'indietro, procedendo per inerzia, frenati solo dall'aria, e dando ogni tanto dei colpetti al pavimento con le dita dei piedi o delle mani. Era decisamente troppo occupato per rendersi conto di quanta strada avessero percorso prima di fermarsi. Immaginò che avessero fatto chilometri, ma non poteva dirlo con certezza.

Si fermarono solo perché il passaggio era terminato. Una massiccia paratia, che si estendeva da sinistra a destra, sbarrava loro la strada. Joe-Jim prese a seguirla verso destra, alla ricerca di qualcosa.

Trovò quello che cercava: una porta a misura d'uomo, chiusa, la cui presenza era rivelata soltanto dalla lieve fessura che ne delineava il contorno e da un disegno geometrico inciso sulla superficie. Joe-Jim studiò il disegno e si grattò la testa di destra. Le due teste bisbigliarono tra di loro. Joe-Jim alzò la mano con un gesto maldestro.

«No, no» disse Jim. Joe-Jim si bloccò. «Allora come?» replicò Joe. Confabularono nuovamente, Joe annuì e Joe-Jim sollevò un'altra volta la mano.

Seguì il disegno sulla porta senza toccarlo, muovendo l'indice nell'aria a una decina di centimetri dalla porta. L'ordine dei movimenti con cui spostava il dito lungo le linee del disegno appariva semplice, ma certamente non ovvio.

Quando ebbe finito, appoggiando il palmo della mano contro la paratia che aveva di fianco, si diede una spinta, tornò fluttuando alla porta e rimase in attesa.

Dopo un istante si sentì un soffio lieve, quasi impercettibile; la porta si scosse e si aprì verso l'interno di circa quindici centimetri, poi si fermò. Joe-Jim sembrò perplesso. Infilò le dita nella fessura e tirò. Non successe niente. Ordinò a Bobo: «Apri!»

Bobo studiò la situazione, con un tale cipiglio che le rughe della fronte gli arrivavano quasi al cocuzzolo. Dopo di che, sistemò i piedi contro la paratia, e si tenne in equilibrio aggrappandosi con una mano alla porta. Poi afferrò con tutt'e due le mani lo spigolo della porta, trovò un solido appoggio per i piedi, piegò il corpo e fece forza.

Mentre tratteneva il fiato aveva il petto gonfio e la schiena piegata, ed era ricoperto di sudore per lo sforzo. I tendini che sporgevano sul collo facevano sembrare la sua testa una piramide deforme. Hugh poté sentire le giunture del nano scricchiolare. Non era difficile credere che si sarebbe ucciso per lo sforzo, era troppo stupido per rinunciare.

Ma improvvisamente l'intelaiatura metallica della porta cedette, con un fragore assordante. La porta, aprendosi di botto, era sfuggita dalle dita di Bobo che, venuto a mancargli il contrappeso, fu catapultato lontano dalla paratia, precipitò lungo il passaggio, annaspando per cercare una presa. Dopo qualche istante, però, lo videro tornare fluttuando goffamente nell'aria, mentre si massaggiava un polpaccio irrigidito da un crampo.

Joe-Jim entrò per primo, seguito a breve distanza da Hugh.

«Dove siamo?» chiese Hugh, spinto da una curiosità che ebbe il sopravvento sui suoi modi servili.

«Nella Centrale Comandi» rispose Joe.

 

La Centrale Comandi! Il luogo più sacro e inviolabile di tutta la Nave, la sua vera ubicazione era un mistero dimenticato! Secondo il credo dei giovani, essa non esisteva. L'atteggiamento degli scienziati più anziani variava da un'accettazione dogmatica a una credenza mistica. Per quanto illuminato Hugh credesse di essere, il suono di quelle parole lo colmò di sacro terrore. La Centrale Comandi! Si diceva che lì vivesse lo spirito stesso di Jordan.

Si arrestò di colpo.

Joe-Jim si fermò a sua volta e Joe si voltò a guardarlo.

«Forza» disse. «Che cosa ti succede?»

«Ma... oh... oh...!»

«Avanti, parla!»

«Ma... questo luogo è proibito... appartiene a Jordan...»

«Oh, per l'amor di Jordan!» protestò Joe con pacata esasperazione. «Mi era sembrato di sentirti dire che a voi giovinastri non importava nulla di Jordan!»

«Sì, ma... ma questo è...»

«Piantala! Muoviti, se non vuoi che ti faccia trascinare da Bobo.»

Joe-Jim si allontanò e Hugh lo seguì riluttante, con l'aria dell'uomo costretto a salire il patibolo.

S'inoltrarono per un passaggio abbastanza largo da permettere a due persone di procedere affiancate. Il passaggio formava un'ampia curva a novanta gradi, prima di aprirsi nella Centrale Comandi vera e propria. Hugh sbirciò da dietro le ampie spalle di Joe-Jim, impaurito ma curioso.

Vide una sala ben illuminata, immensa, larga non meno di una settantina di metri. Era sferica, l'interno di un grande globo. La superficie del globo era liscia, di color argento. Nel centro geometrico di quella sfera, Hugh vide un blocco di apparecchi largo circa cinque metri. Al suo occhio inesperto quei macchinari erano del tutto incomprensibili. Non avrebbe saputo descriverli, ma si accorse che galleggiavano immobili nell'aria, apparentemente senza nessun sostegno.

Dalla fine del passaggio alla massa che si trovava al centro del globo correva un tubo fatto di rete metallica, largo come il passaggio stesso, che rappresentava l'unica via d'uscita. Joe-Jim si voltò verso Bobo e gli ordinò di rimanere nel passaggio, poi entrò nel tubo.

Si arrampicò aiutandosi con le mani, la rete faceva da scala. Hugh lo seguì, e spuntarono dentro la massa di macchinari che occupava il centro della sfera. Da vicino, il giovane poté osservare ogni singolo dettaglio dell'attrezzatura della Centrale Comandi, ma questa per lui continuava a non avere alcun senso. Spostò lo sguardo sulla superficie interna del globo che li circondava.

Fu un errore. La superficie interna del globo, liscia e di un color argento che abbagliava, non aveva niente che le desse prospettiva. Avrebbe potuto essere lontana decine o centinaia di metri oppure chilometri. Hugh non aveva mai visto un'altezza superiore a quella tra due ponti, né uno spazio vuoto più grande della zona comune del suo villaggio.

Fu colto dal panico, lo assalì un terrore folle, tanto più folle in quanto non sapeva che cosa temeva. Ma un'angoscia atavica si impossessò di lui e una paura istintiva, primordiale di precipitare nel vuoto gli raggelò il sangue.

Si aggrappò al blocco dei comandi, si strinse a Joe-Jim, che lo colpì violentemente sulla bocca con il palmo della mano.

«Si può sapere che cos'hai?» ringhiò Jim.

«Non lo so» riuscì a dire Hugh poco dopo. «Non lo so, ma non mi piace questo posto. Andiamo via di qua!»

Jim inarcò le sopracciglia e si girò verso Joe. Con un'aria disgustata gli disse: «Sarà meglio tornare. Questo bamboccio senza spina dorsale non capirà mai niente di quello che gli dirai.»

«Oh, vedrai che si abituerà» replicò Joe, chiudendo il discorso. «Hugh, arrampicati su uno di quei sedili... là, quello là.»

Intanto, lo sguardo di Hugh era caduto sul tubo attraverso cui avevano raggiunto il cuore della Centrale Comandi e con gli occhi lo aveva ripercorso a ritroso. La sfera, d'un tratto, gli apparve nelle sue dimensioni reali e così egli superò il momento peggiore di panico. Si attenne all'ordine, ancora tremante, ma in grado di obbedire.

La postazione di comando era costituita da un'intelaiatura rigida nella quale erano inseriti sedili, o postazioni, per i vari operatori, con i relativi strumenti e indicatori montati in modo tale da trovarsi quasi sulle ginocchia degli operatori, affinché potessero essere tenuti sott'occhio senza ostacolare la visuale. I sedili erano dotati di alti braccioli, sui quali erano montati gli appositi dispositivi di controllo per ciascun ufficiale di guardia; ma di tutto questo Hugh non s'era ancora potuto rendere conto.

Scivolando sotto il quadro degli strumenti, raggiunse un sedile e vi si abbandonò, lieto della sua avvolgente stabilità. Un poggiapiedi e un poggiatesta gli permisero di sistemarsi in posizione semi-inclinata.

Qualcosa, però, stava accadendo, sul pannello di fronte a Joe-Jim. Hugh se ne accorse con la coda dell'occhio e si girò a guardare. Quasi in cima al quadro brillavano lettere d'un rosso vivace: "Secondo Navigatore Spaziale ai comandi". Che cosa voleva dire Secondo Navigatore Spaziale? Non lo sapeva, ma poi notò che all'estremità superiore del suo pannello c'era la scritta "Secondo Navigatore Spaziale", e concluse che doveva essere proprio lui, o meglio l'uomo che avrebbe dovuto trovarsi in quel posto. Per un istante si sentì a disagio, pensando che il vero Secondo Navigatore Spaziale sarebbe potuto arrivare e trovare Joe-Jim a occupare illegittimamente il suo posto, ma se lo tolse subito dalla mente, sembrava improbabile.

A ogni modo, chi era il Secondo Navigatore Spaziale?

Le lettere svanirono dal quadro di Joe-Jim, un punto rosso si accese sul bordo e vi rimase. Joe-Jim fece un gesto con la mano destra e sul quadro apparve la scritta: "Accelerazione, zero". Poi: "Motori centrali". Le ultime due lampeggiarono diverse volte, prima di essere sostituite da "Nessun segnale". Queste parole svanirono e un punto verde luminoso apparve vicino al margine destro del quadro.

«Attenzione» disse Joe, guardando Hugh «la luce sta per spegnersi.»

«Non vorrai spegnere la luce?» protestò Hoyland.

«Non io, tu. Da' un'occhiata al bracciolo sinistro del tuo sedile. Vedi quelle piccole luci bianche?»

Hugh guardò e, attraverso il rivestimento del bracciolo, vide otto puntini luminosi disposti in due quadrati, uno sopra l'altro.

«Ognuna controlla la luce di un quadrante» spiegò Joe. «Se le copri con la mano la luce si spegne. Avanti, provaci.»

Riluttante, ma affascinato, Hugh fece quanto gli era stato ordinato. Mise la mano sulle minuscole luci, e aspettò. La sfera argentea si fece di un cupo color piombo, poi la luce si affievolì ulteriormente, lasciandoli nel buio completo, a eccezione del leggero chiarore che proveniva dai pannelli degli strumenti. Hoyland si sentiva nervoso e nello stesso tempo euforico. Ritrasse la mano, ma la sfera rimase buia, mentre gli otto punti luminosi erano diventati blu.

«Ora» disse Joe «ti mostrerò le stelle!»

Nelle tenebre, la mano destra di Joe-Jim passò sopra un altro quadrante con otto luci.

 

Il creato.

Fedelmente riprodotte, splendenti, immobili e limpide sulle pareti dello stellano come lo erano quelle originali nelle oscure profondità dello spazio, le stelle lo stavano a guardare. Gioielli di luce a profusione, sparsi con magnifica indifferenza e principesco sfarzo nel simulacro del cielo, gli infiniti soli si stendevano dinanzi a lui... sopra di lui, dietro di lui, tutt'intorno a lui. Era solo, sospeso nel centro dell'universo stellare.

«Oooooh!» L'esclamazione gli uscì involontaria dalle labbra socchiuse, ove il respiro era rimasto sospeso. Stringeva i braccioli con tale forza da spezzarsi le unghie, ma non se ne accorse. Né in quel momento aveva paura: nel suo essere c'era posto per una sola emozione. La vita sulla Nave, a volte dura e a volte monotona, non aveva scalfito la sua innata capacità di apprezzare la bellezza; per la prima volta in vita sua conosceva l'intollerabile estasi della pura bellezza. Lo sconvolgeva e lo feriva, come la prima trepida rivelazione del sesso.

Dovette passare un po' di tempo prima che Hugh si riprendesse abbastanza dallo shock e dall'intensa preoccupazione che lo aveva seguito per accorgersi del riso sardonico di Jim e del sogghigno ironico di Joe.

«Hai visto abbastanza?» chiese Joe. Senza aspettare una risposta, Joe-Jim riaccese le luci, usando i comandi sul bracciolo sinistro della sua poltrona.

Hugh sospirò. Sentiva un dolore al petto e il cuore gli batteva forte. Si accorse improvvisamente che aveva trattenuto il respiro per tutto il tempo in cui le luci erano state spente.

«E ora, caro il mio scienziato» domando Jim «sei convinto?»

Hugh sospirò ancora, senza sapere perché. Con le luci accese, si sentiva di nuovo sicuro e protetto, ma nel suo animo sentiva di avere subito una grave perdita. Inconsciamente sapeva che, avendo visto le stelle, non avrebbe più potuto essere felice.

La sorda pena che sentiva nel cuore, la vaga nostalgia profondamente sepolta nel suo essere per la perduta eredità di spazi senza fine e stelle, non si sarebbe più sopita, anche se sapeva ancora troppo poco per esserne del tutto cosciente.

«Che cos'era?» chiese con voce sommessa.

«Era tutto» rispose Joe. «Era il mondo, l'universo. Tutto ciò che ho cercato di farti capire.»

Hugh, furioso, si sforzò di costringere il suo cervello inesperto a comprendere.

«Era quello che tu chiamavi l'esterno?» domandò. «Tutte quelle meravigliose piccole luci?»

«Certo» disse Joe «soltanto che non sono piccole. Sono molto lontane, capisci, forse migliaia di chilometri.»

«Migliaia di chilometri?»

«Ma sì, certo» insistette Joe. «C'è un'enorme quantità di spazio, fuori di qua. Lo spazio. È immenso. Chissà, forse qualcuna di quelle stelle può essere grande come la Nave... forse più grande ancora.»

La faccia di Hugh Hoyland era straziata dall'eccessivo sforzo di immaginazione.

«Più grandi della Nave?» ripeté. «Ma... ma...»

Jim scosse la testa con impazienza e disse a Joe: «Che cosa t'avevo detto? Perdi il nostro tempo con questo zuccone. Non ha la minima capacità...»

«Non esagerare, Jim» disse Joe. «Non puoi pretendere che impari a correre prima di aver imparato a strisciare. Anche noi abbiamo avuto bisogno di molto tempo. Mi sembra di ricordare che tu facevi un po' fatica a credere ai tuoi stessi occhi.»

«Non è vero» disse Jim in tono brusco. «Eri tu quello che non ci voleva credere.»

«Va bene, va bene» concedette Joe. «Sarà come dici tu. Ma c'è voluto molto tempo prima che tu e io imparassimo a vedere come stanno realmente le cose.»

Hoyland badava poco alla discussione tra i due fratelli. Le loro dispute rientravano nella norma, mentre la sua attenzione era concentrata su questioni decisamente fuori dalla norma.

«Joe» chiese a un tratto «che cosa è accaduto alla Nave quando abbiamo visto le stelle? Vedevamo forse attraverso di essa?»

«Non esattamente» rispose Joe «non vedevi le stelle direttamente, ma una specie di quadro che le rappresentava. È come... insomma, è un effetto che si ottiene tramite degli specchi, o qualcosa del genere. Ho un libro che lo spiega.»

«Ma puoi anche vederle direttamente» disse Jim, dimentico ormai della sua arrabbiatura. «C'è un compartimento più avanti...»

«Sì» confermò Joe «mi era sfuggito di mente, è la Veranda del Capitano. Ha un'intera parete di vetro, attraverso la quale si può guardare fuori.»

«La Veranda del Capitano? Ma...»

«No, non si tratta dell'attuale Capitano. Lui non si è mai spinto da queste parti. Ma così è scritto sulla porta.»

«Che cos'è una veranda?»

«E chi lo sa. È solo il nome di quel luogo.»

«Vuoi condurmi fin là?»

Joe stava per acconsentire, ma Jim s'intromise: «Un'altra volta. Adesso voglio tornare giù... Ho fame.»

Ripercorsero il tubo, svegliarono Bobo e iniziarono la lunga discesa del ritorno.

 

Passò molto tempo prima che Hugh riuscisse a convincere Joe-Jim a condurlo di nuovo in esplorazione, ma quel periodo di tempo fu bene impiegato. Joe-Jim lo lasciò libero di leggere la più vasta collezione di libri che Hugh avesse mai visto. Alcuni erano testi che Hugh conosceva già, ma, rileggendoli adesso, poté trovarvi un senso del tutto nuovo. Leggeva senza posa, affrontando di continuo nuovi concetti, spesso lottando con essi, talora restandone sopraffatto, ma altre volte riuscendo, sia pure a fatica, ad assimilarli. Trascurava il sonno, dimenticava di mangiare, fino a quando respirare gli diventava doloroso e acuti crampi alla cintola lo costringevano a occuparsi del suo corpo. Saziata la fame, tornava alle letture, finché la testa gli doleva e gli occhi si rifiutavano di mettere a fuoco.

Le esigenze di Joe-Jim erano poche. Sebbene Hugh fosse in servizio a tempo pieno, a Joe-Jim non dava fastidio il fatto che lui leggesse, purché restasse a portata di voce, pronto ad accorrere appena chiamato. Giocare a scacchi con una delle due teste, quando l'altra non ne aveva voglia, era il servizio che gli portava via più tempo. Anche questo, però, non era tempo del tutto perso, perché, quando l'avversario era Joe, riusciva quasi sempre a portare la discussione sulla Nave, la sua storia, i suoi motori e i suoi strumenti, su chi l'aveva costruita e munita di un equipaggio per la prima volta, sulla storia di quelle persone, là, sulla Terra, quell'incredibile, inimmaginabile luogo, dove esseri umani avevano vissuto esternamente anziché internamente.

Hugh si chiedeva perché non volassero via.

Affrontò la questione con Joe e alla fine acquisì alcune nozioni sulla forza di gravità. Da un punto di vista emotivo, non riuscì mai ad accettare veramente l'idea della gravitazione — era troppo inverosimile perché potesse crederci — ma, da un punto di vista intellettuale, se ne convinse e, molto tempo dopo, utilizzò il concetto nei suoi primi incerti tentativi di avvicinarsi alla scienza della balistica e all'arte della navigazione spaziale, oltre che per cercare di capire come si manovrava una nave. Inoltre, il tempo lo portò a interrogarsi sulla questione del peso nella Nave, un argomento che fino ad allora non gli aveva mai creato alcun problema. Il fatto che scendendo di livello il peso aumentasse, per lui, rientrava nell'ordine delle cose, e non si era mai interrogato al riguardo. Sapeva che la fionda funzionava grazie alla forza centrifuga, ma non riusciva assolutamente a figurarsi come facesse l'intera Nave ad avere un'analoga rotazione, né che cosa la rotazione avesse a che fare con il peso. Non credette mai veramente che la rotazione potesse generare il peso.

Joe-Jim lo condusse un'altra volta alla Centrale Comandi, e gli mostrò quel poco che sapeva sul funzionamento dei comandi e sulla lettura degli strumenti di navigazione spaziale.

Gli ingegneri assoldati dalla Fondazione Jordan, di cui da lungo tempo si era persa la memoria, avevano ricevuto l'ordine di progettare una nave che, se anche il viaggio si fosse protratto oltre i sei anni previsti, non si sarebbe logorata. Ed essi l'avevano costruita meglio di quanto credessero. Nel progettare i motori principali e le macchine ausiliarie, quasi tutte automatizzate, che avrebbero reso la Nave abitabile, e nell'ideare i comandi necessari a manovrare le macchine non completamente automatizzate, l'idea stessa di pezzo in movimento era stata abolita. Motori e macchine ausiliarie lavoravano su un piano diverso da quello meccanico, su un piano di forza pura, come i trasformatori elettrici. Invece di pulsanti, leve, manopole, pulegge e alberi motore, i comandi e le macchine che questi dirigevano erano stati concepiti in termini di equilibrio tra campi statici, valvole elettroniche, circuiti aperti e chiusi da una mano posta sopra una sorgente luminosa. Con questo sistema, l'attrito e l'usura avevano perso significato; il tempo non sortiva alcun effetto. Se anche tutto l'equipaggio fosse rimasto ucciso in un ammutinamento, la Nave avrebbe continuato il suo viaggio nello spazio, sarebbe rimasta illuminata, con l'aria sempre fresca e al giusto grado di umidità, i motori pronti, in attesa di essere messi in funzione. E così era stato. Anche se ascensori e nastri trasportatori avevano finito per guastarsi, erano caduti in disuso e la loro stessa funzione era stata dimenticata, i macchinari essenziali della Nave avevano continuato automaticamente a servire l'ignaro carico umano, oppure, forse, aspettavano, pronti e in silenzio, qualcuno sufficientemente intelligente da scoprirne il mistero.

La costruzione della Nave era stata opera di menti veramente geniali. Assolutamente troppo grande per essere assemblata sulla Terra, era stata montata pezzo per pezzo in orbita, oltre la Luna. Poi, aveva continuato a girare per quindici silenziosi anni, mentre si formulavano e si risolvevano i problemi nati dalla decisione di dotarla di macchine che non temevano né il tempo né la stupidità umana. Nel corso di questo processo, era stato scoperto un intero campo d'azione submolare, affrontando e risolvendo i problemi a esso connessi.

Così, quando Hugh posò una mano ignorante e curiosa sulla prima spia luminosa di una fila contraddistinta dall'indicazione "Accelerazione positiva", ebbe una risposta immediata, anche se non in termini di accelerazione. Una luce rossa si mise a lampeggiare sul quadro del primo pilota e sul pannello di controllo s'accese la scritta "Motori centrali non in funzione".

«Che cosa significa?» chiese a Joe-Jim.

«Non c'è modo di saperlo» rispose Jim. «Abbiamo fatto la stessa cosa nel salone dei motori centrali» aggiunse Joe. «Là, quando provi, appare la scritta "Centrale Comandi non in funzione".»

Hugh rifletté un istante.

«Che cosa accadrebbe» continuò «se in tutte le postazioni di comando, nello stesso momento, ci fosse qualcuno e io facessi quello che ho fatto adesso?»

«Non te lo so dire» rispose Joe. «Non ho mai potuto sperimentarlo.»

Hugh non disse altro. Un'idea cresciuta nella sua mente senza una forma precisa si stava ora concretizzando in una decisione. Era assorto in questo pensiero.

 

Prima di esporre a Joe-Jim la sua idea, Hugh aspettò che entrambe le teste fossero di buon umore. Si trovavano nella Veranda del Capitano, quando Hoyland decise che era giunto il momento opportuno. Joe-Jim si stava rilassando sulla poltrona del Capitano, con lo stomaco pieno, e attraverso lo spesso cristallo della vetrata fissava le stelle limpide. Hugh fluttuò al suo fianco. A causa della rotazione della Nave, le stelle sembravano muoversi in circoli maestosi.

«Joe-Jim» disse Hugh dopo qualche istante.

«Eh? Che c'è, ragazzo?» rispose Joe.

«È molto bello, vero?»

«Che cosa?»

«Tutto questo... le stelle.»

Con un ampio movimento della mano, Hugh indicò il cosmo oltre la vetrata, e dovette aggrapparsi al sedile per non rovesciarsi all'indietro.

«Sì, certo che lo è. Dà una sensazione di benessere.»

Stranamente, fu Jim a pronunciare queste parole.

Hugh capì che era arrivato il momento. Aspettò un istante, poi disse: «Perché non terminiamo noi l'impresa?»

Le due teste si girarono contemporaneamente, Joe sporgendosi un po' per vedere oltre Jim: «Quale impresa?»

«Il Viaggio. Perché non avviamo i motori centrali e ci rimettiamo in navigazione? Da qualche parte là fuori» disse velocemente, prima di essere interrotto «esistono pianeti come la Terra... o almeno così credeva il Primo Equipaggio. Troviamoli noi, questi pianeti.»

Jim lo guardò e scoppiò a ridere, Joe scosse la testa.

«Ragazzo» disse serio «tu non sai quello che dici. Sei più tonto di Bobo. No» proseguì «è un capitolo chiuso. Non ci pensare più.»

«Perché un capitolo chiuso, Joe?»

«Perché... è un'impresa troppo grande. Ci vorrebbe un Equipaggio che sapesse quello che fa, addestrato a manovrare la Nave.»

«Credi che ci sarebbe bisogno di tutto questo? Da quanto ho visto, le postazioni di comando, in realtà, sono una dozzina in tutto. Non pensi che una dozzina di uomini potrebbe manovrare la Nave... se avesse le tue conoscenze?» aggiunse con furbizia.

Jim ridacchiò: «Te l'ha fatta, Joe. Ha ragione.»

Joe lo ignorò.

«Tu sopravvaluti le nostre conoscenze. Forse potremmo far funzionare la Nave, ma non arriveremmo da nessuna parte. Non sappiamo dove ci troviamo. La Nave sta andando alla deriva da non so quante generazioni. Non sappiamo dove siamo diretti né a quale velocità ci muoviamo.

«Ma, ascoltami» implorò Hugh «ci sono gli strumenti, me li hai mostrati tu. Non potremmo imparare a usarli? Non saresti in grado di scoprire come funzionano, Jim, se veramente lo volessi?»

«Credo di sì» affermò Jim.

«Non darti delle arie» lo ammonì Joe.

«Non mi sto dando delle arie» sbuffò Jim. «Se una cosa non è rotta, io riesco a farla funzionare.»

«Bum!» fece Joe.

La situazione era delicata. Hugh li aveva messi l'uno contro l'altro — esattamente quel che voleva — e il meno arrendevole dei due era dalla sua parte. Ora, per trarne profitto...

«Ho avuto un'idea, Jim» disse pronto «per procurarti gli uomini che lavorerebbero ai tuoi ordini, se tu fossi in grado di addestrarli...»

«Quale sarebbe l'idea?» domandò Jim, sospettoso.

«Ascolta, ricordi quello che ti dissi su un gruppo di giovani scienziati...»

«Oh, quella massa d'idioti!»

«Sì, d'accordo... ma loro non sanno tutte le cose che voi avete scoperto. A modo loro, cercavano di essere ragionevoli. Se io potessi scendere da loro e informarli di quello che mi avete insegnato, potrei procurarvi gli uomini che vi servono.»

Joe intervenne: «Guardaci bene, Hugh. Che cosa vedi?»

«Ma... vedo te, Joe-Jim.»

«Tu vedi un mutante» lo corresse Joe, con la voce piena di sarcasmo. «Noi siamo un mutante. Lo capisci? I tuoi giovani scienziati non lavoreranno mai con noi!»

«No, no» protestò Hugh. «Non è vero. Non sto parlando di contadini. I contadini non capirebbero, ma loro sono scienziati, si tratta degli uomini più brillanti dell'Equipaggio. Capiranno. Tutto quello che dovete fare è provvedere affinché possano attraversare incolumi la regione dei mutanti. Voi lo potete fare, vero?» aggiunse, portando istintivamente la discussione su un terreno più concreto.

«Certo» disse Jim.

«Scordatelo!» esclamò Joe.

«E va bene, come vuoi tu» si rassegnò Hugh, avvertendo che la sua ostinazione stava seriamente irritando Joe. «Ma sarebbe stato davvero entusiasmante...»

Si allontanò un po' dai fratelli. Sentì che Joe-Jim continuava la discussione con se stesso a bassa voce. Finse d'ignorarli. Joe-Jim, data la sua duplice natura, aveva questo difetto sostanziale: essendo un comitato più che un singolo individuo, non era un uomo d'azione, in quanto tutte le sue decisioni erano frutto di discussioni e compromessi.

Parecchio tempo dopo, Hugh sentì Joe che diceva a voce alta: «E va bene, va bene, facciamo come vuoi tu!» E poi urlò: «Hugh! Vieni qua!»

Hugh si diede una spinta puntando i piedi contro una paratia che aveva di fianco e schizzò come un proiettile vicino a Joe-Jim, tanto che per frenarsi dovette afferrare con entrambe le mani la poltrona del Capitano.

«Abbiamo deciso» annunciò Joe, senza preliminari «di lasciarti tornare giù, nella zona dell'alto peso, a vendere la tua idea. Ma secondo me sei proprio matto» aggiunse in tono acido.

 

Bobo scortò Hugh Hoyland attraverso i pericolosi livelli popolati dai mutanti e lo lasciò in una zona disabitata, sopra l'alto peso.

«Grazie, Bobo» disse Hugh, allontanandosi. «Lauto pasto!»

Il nano sorrise, abbassò la testa e scappò via, arrampicandosi sulla scala da cui erano appena discesi.

Hugh si voltò e ricominciò la discesa, toccando il suo coltello. Faceva piacere sentirselo di nuovo contro il corpo, anche se non era il suo coltello d'un tempo. Quello era stato il premio di Bobo per averlo catturato e il nano non aveva avuto modo di renderglielo, dato che lo aveva inavvertitamente lasciato conficcato nel corpo di un grosso mutante in fuga. Ma il coltello che Joe-Jim gli aveva regalato per sostituire quello perduto era ben bilanciato e piuttosto soddisfacente.

Bobo lo aveva condotto, su richiesta di Hugh e per ordine di Joe-Jim, nella zona che si trovava esattamente sopra il Convertitore ausiliario usato dagli scienziati. Hugh voleva trovare Bill Ertz, l'assistente dell'Ingegnere Capo e leader del gruppo degli scienziati più giovani, e non voleva rispondere a troppe domande prima di averlo raggiunto.

Si calò rapidamente attraverso gli ultimi livelli rimasti e si trovò in un passaggio principale che riconobbe. Bene! Una svolta a sinistra, una marcia di duecento metri e si trovò alla porta del compartimento che ospitava il Convertitore.

Un uomo dall'aria indolente stava di guardia di fronte a esso. Hugh procedette oltre, ma fu fermato.

«Ehi, tu, dove credi di andare?»

«Sto cercando Bill Ertz.»

«Vuoi dire l'Ingegnere Capo? Non è qui.»

«Capo? E l'altro che fine ha fatto?» chiese Hugh. Si pentì subito della domanda, ma ormai era troppo tardi.

«Il vecchio Ingegnere Capo? Oh, quello ha fatto il Viaggio già da un pezzo.» La sentinella lo guardò con sospetto. «Che cos'hai?»

«Niente» rispose Hugh «solo un lapsus...»

«Uno strano lapsus. L'Ingegnere Capo dev'essere nel suo ufficio, comunque.»

«Grazie. Lauto pasto!»

«Lauto pasto a te.»

Hugh fu ammesso alla presenza di Ertz dopo una breve attesa. Questi levò gli occhi dalla scrivania nell'istante in cui Hoyland entrava.

«Bene» disse «così sei tornato, e non sei morto, a quanto vedo. Questa sì che è una sorpresa. Sei stato iscritto nel registro dei decessi, come se avessi fatto il Viaggio.»

«Sì, lo immaginavo.»

«Siediti e raccontami... Non ho molto tempo da perdere al momento. Sai che non ti avrei riconosciuto? Sei molto cambiato, tutti quei capelli grigi. Dev'essere stata dura per te...»

Capelli grigi? I suoi capelli erano grigi? Anche Ertz era cambiato parecchio, si rese conto Hugh. Aveva messo su pancia e il suo volto era coperto di rughe. Jordan! Ma quanto tempo era stato via?

Ertz tamburellò con le dita sulla scrivania e storse le labbra.

«È un problema... questo tuo improvviso ritorno. Temo di non poterti assegnare il tuo vecchio incarico, adesso lo svolge Mort Tyler. Ma ti troveremo un posto adatto al tuo rango.»

Hugh si ricordava di Mort Tyler, e non troppo favorevolmente. Un giovane affettato, sempre attento a fare ciò che si conveniva ed era conforme alle regole. Dunque, Tyler si era effettivamente dato alla scienza e aveva preso l'antico posto di Hugh al Convertitore! Ormai non aveva importanza.

«Non preoccuparti per me» disse a Ertz. «Quello che mi premeva era parlarti...»

«Certo, c'è il problema dell'anzianità di servizio...» lo interruppe Ertz. «Forse il Consiglio dovrebbe considerare la questione. Non mi risulta che esistano precedenti a cui attenersi. Abbiamo perso molti scienziati a causa dei mutanti in passato, ma tu sei il primo, a quanto ricordo, che sia riuscito a salvarsi.»

«Non importa» s'intromise Hugh. «Ci sono cose molto più urgenti di cui vorrei parlarti. Durante la mia assenza ho avuto modo di scoprire alcune cose straordinarie, Bill, cose che devi assolutamente sapere. Ecco perché sono venuto dritto da te. Senti, io...»

Ertz improvvisamente si fece attento.

«Lo credo bene, Hugh! Si vede proprio che sto invecchiando! Devi avere avuto una fantastica occasione di studiare i mutanti ed esplorare il loro territorio. Su, racconta! Fammi il tuo resoconto!»

Hugh s'inumidì le labbra.

«Non si tratta di quello che credi» cominciò. «È infinitamente più importante di un semplice resoconto sui mutanti, sebbene li riguardi. Infatti, vedi, noi dovremo cambiare tutta la nostra posizione nei riguardi dei mutanti, capisci?»

«Continua, ti ascolto.»

«Bene.»

E Hoyland gli fece un racconto particolareggiato delle sue straordinarie scoperte sulla vera natura della Nave, scegliendo con cura le parole e sforzandosi di risultare convincente. Si soffermò molto brevemente sulle difficoltà che il tentativo di riorganizzare la Nave in relazione alle nuove scoperte avrebbe presentato, e insistette a lungo sul prestigio e l'onore che ne sarebbero venuti all'uomo che avesse guidato l'impresa.

Parlando, non perdeva d'occhio l'espressione del volto di Ertz. Dopo l'iniziale sorpresa, quando Hugh aveva rivelato la scoperta più importante, cioè che la Nave in realtà era un corpo che si muoveva in un grande spazio esterno a essa, la sua faccia era diventata impassibile e Hugh non era più riuscito a leggervi niente, tranne che sembrò rivelare un maggiore interesse quando Hugh parlò di come Ertz fosse l'uomo più adatto al compito, per l'ascendente di cui godeva presso il gruppo degli scienziati più giovani e progressisti.

Quand'ebbe concluso, Hoyland aspettò la risposta di Ertz. All'inizio, questi non disse niente, continuò semplicemente con quella sua fastidiosa abitudine di tamburellare con le dita sul tavolo. Infine, parlò: «Queste sono cose importanti, Hoyland, terribilmente importanti, e non le si può affrontare alla leggera. Mi occorre tempo per pensarci con calma.»

«Sì, certo» convenne Hugh. «Volevo solo aggiungere che ho preso accordi per salire senza pericolo al non peso. Posso guidarti io, lassù, e farti vedere coi tuoi occhi come stanno le cose.»

«Sono sicuro che sia la cosa migliore da fare» rispose Ertz. «Bene... hai fame?»

«No.»

«Allora ci dormiremo sopra entrambi. Puoi usare il compartimento sul retro del mio ufficio. Non voglio che tu parli di questo con nessun altro, fino a quando non avrò studiato bene il problema. Rivelazioni così importanti potrebbero causare disordini, se trapelassero senza un'adeguata preparazione...»

«Sì, hai ragione.»

«Benissimo, dunque...» Ertz lo guidò in un compartimento dietro il suo ufficio che egli con tutta evidenza utilizzava come sala d'aspetto. «Buon riposo» gli disse «e a più tardi.»

«Grazie» rispose Hugh. «Lauto pasto.»

«Lauto pasto.»

Rimasto solo, Hugh sentì l'eccitazione affievolirsi a poco a poco e si accorse di essere stanchissimo e molto assonnato. Si sdraiò sul divano e si addormentò.

Quando si svegliò, scoprì che la porta della cabina era stata chiusa a chiave dall'esterno e, peggio ancora, che il suo coltello era scomparso.

Dopo una lunga attesa, sentì armeggiare all'uscio.

La porta si aprì e sulla soglia comparvero due uomini robusti, con la faccia impassibile.

«Vieni con noi» disse uno di loro.

Hoyland li esaminò, notando che nessuno di loro aveva un coltello. Nessuna probabilità, quindi, di sottraine uno dalla loro cintura. Gli rimaneva la speranza, d'altra parte, di riuscire a fuggire.

Ma, alle loro spalle, a prudente distanza nel compartimento esterno, vide altri due uomini altrettanto atletici, ciascuno armato d'un coltello. Uno bilanciava l'arma, pronto a tirarla, l'altro ne impugnava il manico, pronto per un eventuale corpo a corpo.

Si rese conto di essere in trappola. Ogni sua possibile mossa era stata prevista.

Da molto tempo aveva imparato a rimanere calmo davanti all'inevitabile. Assunse un'espressione tranquilla e uscì senza fretta dalla stanza. Ertz lo stava aspettando, chiaramente al comando del gruppo di uomini. Hugh si rivolse a lui, stando attento a parlare con voce calma: «Ciao, Bill. Vedo che hai pensato proprio a tutto. C'è forse qualche problema?»

Ertz sembrò incerto su quello che doveva dire, poi rispose: «Devi presentarti al Capitano.»

«Bene!» disse Hugh. «Grazie, Bill. Ma credi che sia prudente cercare di convincere lui senza aver prima sondato le opinioni degli altri?»

Ertz fu seccato da tanta ottusità e non glielo nascose: «Tu non hai capito la situazione!» ringhiò. «Ti devi presentare al Capitano per essere processato... per eresia.»

Hugh meditò su queste parole, come se l'idea non lo avesse ancora sfiorato. Poi osservò con calma: «Sei sceso nel passaggio sbagliato, Bill. Forse un'accusa e un processo sono la via migliore per raggiungere lo scopo, ma non sono un contadino, che si possa portare a calci dal Capitano. Io devo essere processato dal Consiglio. Sono uno scienziato.»

«Anche ora?» disse Ertz gentilmente. «Mi sono informato e ho saputo che sei stato cancellato dalle liste. Spetta al Capitano decidere che cosa sei.»

Hugh non rispose. Tutto era contro di lui, lo sapeva, e non avrebbe avuto niente da guadagnare a inimicarsi Ertz. L'Ingegnere Capo fece un segnale e i due uomini disarmati afferrarono Hugh per le braccia. Egli li seguì senza opporre resistenza.

 

Hugh guardò con interesse il Capitano. Il vecchio non era cambiato molto... un po' più grasso, forse.

Il Capitano si sistemò comodamente nella poltrona e prese il memorandum che aveva davanti a sé.

«Che cosa significa tutto ciò?» esordì con tono irritato. «Non capisco.»

C'era Mort Tyler a sostenere l'accusa contro Hoyland, una circostanza che Hugh non aveva potuto prevedere e che accentuò le sue apprensioni. Frugò tra i ricordi d'infanzia alla ricerca di qualche appiglio per guadagnarsi la simpatia dell'uomo, ma non ne trovò.

Tyler si schiarì la voce e cominciò: «È il processo di un certo Hugh Hoyland, Capitano, un tempo uno dei vostri giovani scienziati...»

«Uno scienziato? E allora, perché non se ne occupa il Consiglio?»

«Perché non è più uno scienziato, Capitano. È passato ai mutanti e ora è tornato fra noi a predicare l'eresia e a cercare di minare la vostra autorità.»

Il Capitano guardò Hugh con la pronta ostilità dell'uomo geloso delle proprie prerogative.

«Ah, è così?» urlò rabbiosamente. «Che cos'hai da dire in tua difesa?»

«L'accusa è completamente infondata, Capitano» rispose Hugh. «Tutto quello che ho detto è la conferma della verità assoluta della nostra antica sapienza. Non ho messo in dubbio le verità che regolano la nostra vita, le ho semplicemente affermate con maggior forza di quanto siamo soliti fare. Io...»

«Io continuo a non capire» lo interruppe il Capitano, scuotendo la testa. «Sei accusato di eresia, e nello stesso tempo sostieni di credere ai Dogmi. Se non sei colpevole si può sapere perché sei qui?»

«Forse posso chiarire io le cose» intervenne Ertz. «Hoyland...»

«Speriamo» sospirò il Capitano. «Su, avanti... Sentiamo che cosa hai da dire.»

Ertz fornì una versione abbastanza esatta, sebbene tendenziosa, del ritorno di Hoyland e della sua strana storia. Il Capitano stette ad ascoltare con un'espressione che variava dalla perplessità alla noia.

Quando Ertz ebbe concluso, il Capitano si volse ancora a guardare Hugh: «Mah!» disse.

Hugh replicò immediatamente.

«In sostanza, Capitano, io sostengo che su, nel non peso, c'è un luogo dove si può realmente vedere che la Nave si muove! Dove si può realmente vedere il Disegno di Jordan in azione! Questo non significa rinnegare la fede, ma affermarla. Non c'è bisogno che vi fidiate della mia parola. Jordan stesso dimostrerà che dico la verità.»

Notando che il Capitano sembrava indeciso, Tyler intervenne. «Capitano, c'è una possibile spiegazione a questa incredibile situazione, una spiegazione che sento il dovere di farvi conoscere. Ci sono due interpretazioni ovvie della ridicola storia di Hoyland: o egli è semplicemente colpevole di estrema eresia o dentro di sé è un mutante che ha escogitato un piano per consegnarvi nelle mani dei suoi compagni. Ma c'è anche una terza, più caritatevole, spiegazione, quella che in cuor mio sento essere vera. È registrato negli archivi che Hoyland rischiò di essere affidato al Convertitore dopo la visita di controllo che gli fu fatta alla nascita, ma la sua imperfezione fisica, la testa troppo grossa, era minima, e venne risparmiato. Ritengo che le terribili esperienze da lui subite quando era nelle mani dei mutanti possano avere alla fine avuto ragione di una mente già scossa. Il poveretto, semplicemente, non è responsabile delle sue azioni.»

Hugh guardò Tyler con un nuovo rispetto. Assolverlo d'ogni colpa e nello stesso tempo assicurarsi che facesse il Viaggio... Che abilità!

Il Capitano fece un cenno con la mano.

«Basta, questa conversazione è durata anche troppo!» Poi, rivolgendosi a Ertz: «Che cosa suggerisce?»

«Il Convertitore, Capitano.»

«Va bene, allora. Ma veramente non capisco, Ertz» continuò irritato «perché venga a infastidirmi con queste inezie. Se non sbaglio, lei dovrebbe essere capace di tenere la disciplina nel suo reparto senza bisogno del mio aiuto.»

«Certo, Capitano.»

Il Capitano si allontanò dalla scrivania e si alzò in piedi: «Suggerimento accolto. Congedati.»

Hoyland fu pervaso dalla rabbia per l'assurda ingiustizia di tutto ciò. Non avevano neppure preso in considerazione l'idea di controllare la sola prova reale che egli aveva in sua difesa.

Sentì una voce urlare: «Aspettate!»

Poi scoprì che quella voce era la sua.

Il Capitano rimase immobile, guardandolo.

«Aspettate un momento» proseguì Hugh, a cui le parole uscivano spontaneamente.

«Quanto vi sto per dire non farà alcuna differenza, visto che siete così dannatamente sicuri di conoscere tutte le risposte da non considerare una proposta ragionevole come quella di verificare con i vostri occhi. Nondimeno, eppure... eppur si muove

 

Hugh ebbe tutto il tempo che voleva per pensare, disteso nel compartimento dove lo avevano rinchiuso in attesa che il programma energetico richiedesse il suo inserimento nel Convertitore. Ebbe tempo di ripensare ai propri errori. Il primo sbaglio era stato quello di raccontare tutto a Ertz appena tornato. Avrebbe dovuto aspettare, rinsaldare i legami con Ertz e sondarlo, invece di fare affidamento su una vecchia amicizia che non era mai stata molto profonda.

Secondo sbaglio: Mort Tyler. Quando aveva sentito pronunciare il suo nome da Ertz, avrebbe dovuto cercare di scoprire quanta influenza quell'individuo avesse su Bill. Conosceva Tyler da molto tempo, non avrebbe dovuto sbagliarsi in modo così grossolano sul suo conto.

Ed eccolo qui, condannato come un mutante o, forse, come un eretico. In fondo, non cambiava molto. Si domandò se non gli sarebbe convenuto cercare di spiegare perché esistevano i mutanti. L'aveva imparato leggendo alcuni antichi documenti posseduti da Joe-Jim. No, non sarebbe servito a niente. Come si poteva spiegare che erano state le radiazioni provenienti dall'esterno a causare la nascita dei mutanti, quando nessuno credeva che esistesse un esterno? No, lui aveva combinato il guaio prima di essere portato alla presenza del Capitano.

Le sue riflessioni alla fine furono interrotte dal rumore della porta che si apriva. Era troppo presto per un altro dei rari pasti che gli venivano portati, perciò credette che finalmente fossero venuti a prenderlo e rinnovò il proposito di vendere cara la pelle.

Ma si sbagliava. Sentì una voce flebile e piena di dignità che diceva: «Figliolo, figliolo, che cosa ti è successo?»

Era il Tenente Nelson, il suo primo maestro, che appariva invecchiato e fragile.

Il colloquio fu penoso per entrambi. Il vecchio, che non aveva avuto figli, aveva nutrito grandi progetti per il suo protetto, aveva addirittura sperato che un giorno potesse aspirare alla carica di Capitano, sebbene si fosse tenuto quelle ambizioni per sé, pensando che non fosse opportuno lodare eccessivamente i giovani. Aveva profondamente sofferto quando Hugh era stato dato per morto.

Ora il giovane, divenuto un uomo, era tornato, ma disonorato e condannato al Convertitore.

Anche per Hugh il colloquio fu straziante. A modo suo, aveva voluto molto bene al vecchio, desiderando compiacerlo e cercando la sua approvazione. Mentre raccontava la sua storia, però, si rese conto che Nelson la giudicava soltanto un'aberrazione della sua mente e sospettò perfino che egli preferisse vederlo andare incontro a una rapida morte nel Convertitore, con gli atomi ridotti a idrogeno e trasformati in utile e pura energia, piuttosto che saperlo vivo a farsi beffe degli antichi insegnamenti.

In questo, però, Hugh fu ingiusto con il suo vecchio maestro, perché sottovalutava il buon cuore di Nelson e gli attribuiva un'eccessiva devozione alla "scienza". In ogni caso Hugh, se in gioco ci fosse stato solo il suo benessere, avrebbe preferito morire pur di non spezzare il cuore al suo benefattore, essendo un uomo romantico e decisamente un po' folle.

Poco dopo il vecchio si alzò per andare, poiché la visita era divenuta intollerabile per entrambi.

«Non c'è niente che possa fare per te, figliolo? Ti nutrono a sufficienza?»

«Benissimo, grazie» mentì Hugh.

«Non hai proprio bisogno di niente?»

«No... cioè, sì, potrebbe farmi avere un po' di tabacco? Non ne mastico da un'infinità di tempo.»

«Va bene. C'è qualcuno che desideri vedere?»

«Pensavo che non mi fosse consentito ricevere visite... visite di persone comuni.»